Bloody Facebook – Chapter 11
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“In questo momento di dolore e di saluto che stiamo vivendo nella preghiera, ci stringiamo intorno alle famiglie Cosentino. I fratelli Calogero e Giuseppe e le rispettive mogli e figli, nel mistero della comunione dei santi, manifestando tutto l’affetto della comunità cristiana e la riconoscenza di quella civile, facendo nostra la parola di Dio che è sempre fonte di speranza…”
Atropo era presente al funerale di Romeo Cosentino camuffato da vagabondo, con tanto di sciarpona, che gli copriva bene il volto, berretto di lana e cappotto di taglia molto abbondante con le maniche che gli coprivano completamente le mani. Stava defilato a osservare i presenti alla cerimonia funebre, soprattutto Giuseppe e Calogero, i suoi nemici da eliminare. Alle esequie c’erano anche Carmelo Benetti con la moglie, e l’albanese Alket Behrami con i suoi due cugini energumeni. Osservò anche i membri delle forze dell’ordine e delle unità investigative, pure loro defilati a osservare. Lui li sapeva riconoscere grazie al suo passato di spia russa, quando, sotto copertura di giovane studente di belle arti venne in Italia. Tra i presenti, notò una bella donna con gli occhiali scuri, capelli neri, lunghi e lisci: si trattava di Matilde Vergani. Notò anche un uomo che poteva avere più o meno la sua età, brizzolato, con uno sguardo deciso come il suo, e pensò che potesse essere un pezzo grosso, un uomo di comando: si trattava di Salvatore Longobucco. Infine, notò un uomo con gli occhi chiari, biondino e barbetta ben curata: si trattava di Antonio Garbin. Ma, quelli che Atropo osservò intensamente con odio, furono Giuseppe e Calogero, che stavano in prima fila impassibili, mentre le mogli e i figli piangevano a dirotto. Il suo pensiero andò dapprima a Vincenzo Cosentino, che aveva le ore contate, per poi spostarsi sui due fratelli e alle sofferenze che avrebbero patito. Proprio nella casa di Dio, Atropo pensò a quali pene infliggere loro; pene ancora più terribili di quelle che dovette subire Gesù Cristo prima di morire. Solo che loro non sarebbero risorti; sarebbero rimasti con lui negli inferi per sempre, e lì avrebbe continuato le sue vessazioni…
“Dio della vita che ci assicura che la risurrezione del suo Figlio, che ora celebriamo è fondamento della futura gloria, di cui sono partecipi i nostri cari che ci hanno lasciato e ora attendono anche il nostro ritorno a quella casa, che è l’unica comune dimora veramente stabile e sicura per sempre. Amen…” Mentre Atropo usciva dalla chiesa, pensò che rimaneva da eliminare anche l’ultimo anello della catena di vendetta: l’Onorevole Silvio Ruggeroni, l’inizio di tutti i mali di questa vicenda maledetta da Dio.
Sabato ore diciassette:
Federico arrivò puntualissimo alla Galleria di Andrey Bykov. Suonò il campanello. Gli aprì un uomo alto, robusto, e vestito con un doppiopetto grigio scuro; aveva capelli neri, lunghi e raccolti dietro a coda di cavallo. Si trattava di Adrian.
-Buonasera Federico Bond, il signor Andrey Bykov la stava attendendo.-
Mentre Federico attraversava il corridoio di ingresso seguendo Adrian, notò sulla parete alla sua destra delle icone che raffiguravano la vita di Gesù Cristo da bambino fino ad arrivare al suo battesimo, da parte di Giovanni Battista, e, alla sua sinistra, altre icone che rappresentavano la Via Crucis. Anche se non era un intenditore di icone, il suo apprezzamento fu molto positivo. Arrivarono a un salone circolare luminoso, con al centro un divano in pelle nera a semicerchio, sul quale era seduto Atropo. Non appena vide arrivare Federico, Atropo posò il bicchiere, che teneva in mano, sul tavolino a cubo, anch’esso in pelle nera, e si alzò andandogli incontro.
-Buonasera signor Bond, prego si accomodi, cosa desidera da bere? Può ordinare qualsiasi cosa, cocktail di qualsiasi tipo. Adrian dispone di un bar fornitissimo.-
Federico fu quasi imbarazzato da così tanta gentilezza ma, allo stesso tempo, allietato, tanto da mettere alla prova il gentile signor Bykov ordinando il suo solito cocktail bourbon lime. La prova fu superata egregiamente tant’è che, già al primo sorso, lo trovò buonissimo. Anche il signor Bykov ordinò lo stesso cocktail, ben contento che suo figlio avesse gli stessi suoi gusti nel bere.
-Allora signor Bond, cosa ne pensa della mia galleria di icone?-
-Mi chiami pure Federico e mi dia pure del tu.-
E, intanto, osservò le icone appese sulla parete ricurva, spostando la testa lentamente fino ad arrivare al limite di torsione del collo. Poi tornò a guardare Atropo e disse:
-Non mi intendo di arte iconografica ma mi sembrano bellissime.-
Atropo doveva ancora riprendersi dall’emozione di sentirsi dare confidenza da Federico quando, senza mostrare alcuna emozione, gli chiese di alzarsi e di seguirlo per ammirare le icone più belle e ricercate della sua collezione.
-Federico guarda attentamente questa icona rappresentante la Sacra Famiglia. Una danza di cerchi che rappresenta l’unione delle persone, una sinfonia del colore, nella quale si distacca, unico, il bianco luce della tunica di colui che è l’origine e il centro di tanta unione. Un inno nuovo dell’amore familiare, nel quale si ripetono come in un ritornello, confidenza, amore, pace, comunione.-
Mentre Federico ascoltava a bocca aperta, Atropo gli aveva già letto nel pensiero la domanda che stava per porgli:
-Pensa che questa icona per me è inestimabile mentre, per altre icone di valore che reputo inferiore, trovo clienti che sono disposti a pagare assegni a sette cifre.-
Si sedettero nuovamente sul divano e si misero a parlare per un’ora. Federico gli raccontò un po’ della sua vita, della quale, per altro, Atropo era già abbondantemente a conoscenza. In ogni caso, questi lo ascoltava con la tenerezza di un padre, quale era, che non vedeva suo figlio da tanti anni. Da parte sua, Atropo raccontò delle verità parziali sul suo passato, ad esempio quando era stato un imprenditore di successo nella produzione e vendita di vodka. Attività ereditata da suo padre. Gli parlò degli avvenimenti che gli cambiarono radicalmente la vita: prima la perdita del padre in un incidente d’auto, poi la morte della moglie per un male incurabile e, infine, la figlia Nikita, in Italia per una vacanza premio, morta in un altro incidente d’auto a Monza. Mentì sul nome della figlia e sulla causa della morte. Questi accadimenti lo avevano portato a trasferirsi in Italia, precisamente a Monza, già da alcuni anni, cioè da quando ebbe la notizia tragica della perdita della figlia. In questa città prese la decisione di dedicarsi alla sua vecchia passione delle icone, con l’apertura di una galleria. Passione che gli fruttava un sacco di quattrini.
Il tempo passò veloce, soprattutto per Atropo: erano anni che aspettava questo momento; intervenne Adrian:
-Mi scusi signor Bykov, ho al telefono il signor Wang da Pechino che vorrebbe prendere un appuntamento per l’acquisto di un’icona.-
In realtà, non era vero, si erano già accordati, prima dell’arrivo di Federico, perché il tempo stringeva e dovevano rifinire il piano diabolico per l’annientamento di Vincenzo Cosentino. Al momento dei saluti, Federico si mostrò molto soddisfatto per ciò che aveva visto e appreso; Atropo, dal canto suo, aveva il cuore colmo di gioia per il pomeriggio trascorso con il figlio.
-Allora ciao Andrey, oh scusami, ti ho dato del tu!-
-Ma figurati! Va bene così Federico, ci mancherebbe.-
E, dentro di sé, sentì una sensazione di calore che ricordò di aver provato solo quando la sua Agata pronunciò per la prima volta la parola “papà”. Atropo congedò definitivamente suo figlio dandogli appuntamento per una cena a casa sua.
Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felice (Misericordiae Vultus).
Ma Atropo non sapeva più che sapore avesse la felicità. Gli fu strappata dal cuore, insieme alla tragica perdita di sua figlia, per mano di creature malvagie. Quella domenica notte d’inverno era pronto, con il suo fedele Adrian, a realizzare il terzo atto vendicativo. Vincenzo Cosentino era inginocchiato davanti al suo altarino privato, nella sua casa di Garbagnate Milanese. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua aahh!? Atropo, dietro di lui, lo afferrò per i capelli e lo trascinò per un paio di metri come se fosse un pupazzo di tessuto gigante. Poi, con tutte le sue forze e con tutta la rabbia che ebbe in corpo, lo alzò, agguantandolo sempre per i capelli con tutte e due le mani, e gli disse:
-Ciao verme schifoso! Stavi pregando per redimerti dai tuoi peccati? Lo sai? È stato semplicissimo arrivare qui, nel tuo covo interrato. Al piano superiore c’erano i tuoi due uomini, talmente inconsistenti che li abbiamo eliminati come moscerini.-
L’effetto sorpresa fu sconvolgente per Vincenzo Cosentino. Si trovò davanti ai suoi occhi il diavolo in persona che parlava. In un primo momento, pensò che fosse veramente lui; probabilmente il demonio aveva preso il sopravvento sul Signore, nonostante le sue ore e ore di preghiere notturne davanti all’altare. Ma poi, a un certo punto, capì in modo tangibile che, colui che gli stava parlando, non era il diavolo, ma una persona in carne e ossa che, per di più, gli rifilò un sonoro ceffone. Nel corso della sua vita, non aveva mai sentito un manrovescio così potente: gli sembrò di aver ricevuto in faccia un colpo di pala di metallo. E poi ancora un altro ceffone sull’altra guancia, e poi ancora un altro, e così via, finché il latitante non svenne, cadendo a terra come un sacco di patate. A quel punto, Atropo e Adrian lo spogliarono completamente nudo, lo misero su una sedia e lo legarono per bene alle mani e ai piedi. Poi gli misero dietro la schiena un semiasse di legno e, con una fascia, fissarono la sua testa allo stesso, affinché fosse obbligato a volgere lo sguardo in un’unica direzione. Lo svegliarono con una secchiata d’acqua gelata. Come da rituale, mentre Atropo gli fissava gli schermini di metallo traforato sulle palpebre, Adrian gli piazzò il treppiede davanti al viso e appoggiò il computer sopra di esso. Poi azionò il video di Agata da bambina che giocava a nascondino.
-Chi siete voi? Siete dei pazzi maniaci? Cosa volete da me? Se mi liberate vi posso dare un sacco di denaro!- disse Vincenzo con voce tremolante.
-Da te vogliamo solo la tua morte, ma prima ci devi parlare dei tuoi fratelli Giuseppe e Calogero, descrivere le loro abitudini, i lori vizi, i loro punti deboli, affinché possiamo colpirli più agevolmente- rispose Atropo, che continuò:
-Con te voglio essere più tenero rispetto a quanto ho fatto a tuo fratello Romeo. Non ti inietterò il siero della verità sotto il testicolo ma adotterò il metodo della tortura russa.-
Il boia Atropo si fece passare la tenaglia da Adrian. Cominciò a tagliare al condannato a morte l’alluce destro.
-Strilla, strilla pure come un maiale, tanto in questa stanza insonorizzata, che hai fatto preparare come tuo nascondiglio, non ti sentirà nessuno. E guarda là mia figlia, guarda come era bella. Tu e i tuoi fratelli l’avete violentata e poi ammazzata. Allora vuoi parlare bastardo?-
Vincenzo Cosentino urlava dal dolore ma non parlò, così Atropo gli tagliò anche l’alluce sinistro, mentre il sangue continuava a sgorgare abbondante da quello destro. Quando la tenaglia si pose sul suo pene, Cosentino decise di spifferare tutto quanto sapeva dei suoi fratelli, loro mogli e figli. Parlò anche di un carico di droga, in arrivo dalla Colombia, del quale si sarebbe occupato suo fratello Giuseppe. Il boia, implacabile, fu soddisfatto e, mentre Adrian cominciò a girare il video da mandare al Comando dei Carabinieri, tagliò di netto il pene e i testicoli di Vincenzo Cosentino e sferrò un netto colpo di forca sul suo petto.
Giustizia fu compiuta.
Era ancora notte fonda. Atropo era sul terrazzo del suo attico in affitto, nelle vicinanze del Comando dei Carabinieri di Monza. Adrian posizionò il drone- insetto gigante affinché fosse pronto per il decollo. Quindi Atropo azionò lo stick del pitch, del radiocomando, in avanti, e il messaggero della morte partì, prendendo il volo. Il drone volteggiò nel buio e, pian piano, si avvicinò al cortile del Comando. Dallo schermo inserito nel radiocomando, era possibile vedere Monza dall’alto grazie alla piccola telecamera montata sul drone: il suo obiettivo a infrarossi bucava la densa nebbia senza problemi. Mentre il drone procedeva verso la caserma volando sopra i tetti delle case, Atropo pensò che quella notte potessero essere stati concepiti degli esseri umani, per errore o per amore. Essere umani concepiti che, a loro volta, dopo altri due, tre, quattro decenni, avrebbero concepito per errore o per amore. Cicli di generazioni viventi o sopravviventi in un mondo che non è mai stato sufficiente e soddisfacente per tutti e che mai lo sarà. Probabilmente, per questo motivo, il Dio creatore si è sempre dilettato a piazzare e togliere dal mondo persone con uno spietato gioco di roulette della fortuna, senza distinzione di età, sesso, stato sociale, colore della pelle. Il tutto per un suo disegno che avrebbe dovuto avere uno scopo, un progetto misterioso. Ma Atropo non voleva sostituirsi a Dio: voleva semplicemente, a scapito della salvezza della sua anima, e con tutto se stesso, eliminare ancora tre esseri umani che non meritavano più di respirare, mangiare e godere della vita terrena. Il drone era arrivato a destinazione, sopra il cortile della caserma dei Carabinieri. Atropo abbassò con decisione lo stick e il suo drone- insetto calò di quota fino a toccare terra. Il carabiniere scelto Antonio Di Gennaro era di turno quella notte. Vide il volatile artificiale atterrare sul suolo e, con la velocità della luce, telefonò al comandante Lo Presti e avvertì, via radio, la pattuglia dei Carabinieri di guardia nella caserma, per raccattarlo.
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Racconto tremendamente lugubre
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