Greek Love – L’Amore Greco – Chapter 9
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Proprio come mio padre Giulio, ottenni il Diploma in costruzioni ambiente e territorio, più semplicemente Geometra come veniva unicamente chiamato un tempo. Feci una maturità con un più che buon risultato: 80/100. I miei genitori organizzarono una festa in mio onore, in un agriturismo nella campagna della Lomellina. Era una bellissima e fresca giornata d’estate, poiché il giorno precedente piovve. Ci trovavamo all’aperto, in un delizioso spiazzo d’aia riattato.
Invitai alcuni amici dell’Oratorio e compagni della squadra di calcio dove giocavo, ma, soprattutto, la mia amica nicaraguense Alicia e suo cugino colombiano Esteban con un suo amico compaesano.
Ci furono canti, balli e melodie armoniose eseguite divinamente da Esteban con la sua chitarra. A un certo punto, i due colombiani si misero a suonare entrambi lo xilofono e Alicia convinse mio padre a ballare con lei il ballo tipico del Nicaragua:
“Las Inditas” . La mia amica cercò di insegnare a Giulio i passi corretti e io morii dal ridere nel vederlo, con schiena ritta e braccia alzate a mezza altezza, mentre ruotava sorridendo, ma impacciato, intorno a lei. Ero seduto mentre li osservavo e mi voltai verso mia madre, anche lei seduta a due metri da me. Osservava la coppia improvvisata di ballerini e sorrideva lievemente con le sue labbra sottili che ebbero, subito dopo pochi secondi, un deciso abbassamento agli angoli che palesavano un velo di tristezza. Si accorse di me che la stavo osservando e cercò di sorridere nuovamente, ma evidenziando una certa forzatura nel farlo. Mio padre andò verso Lucilla per convincerla a ballare anche lei, ma non ci fu proprio verso per invogliarla. Mi alzai e andai io, al posto di mia madre, da Alicia, per imparare un po’ il ballo. Così, io e Giulio eravamo in due scemi a cercare di danzare “Las Inditas”. Mi scappò l’occhio verso mia madre, la quale fece un sorriso sempre evidentemente forzato.
Ci sedemmo poi tutti quanti a mangiare, intorno a una grande tavola rotonda, sulla quale ci servirono varie prelibatezze locali, fra le quali il salame d’oca e riso col latte chiamato in dialetto: “Ris e lat”.
Invece, come dolci, gustammo le specialità nicaraguensi che mi portò Alicia: le “Rosquillas somoteñas”; biscotti buonissimi fatti con estratto del frutto di limetta, mais, formaggio secco, uova, sale e burro. Il tutto innaffiato con Champagne in abbondanza che ha voluto assolutamente acquistare mio padre per la mia festa del diploma.
Passarono i giorni e i mesi e venne l’autunno. Mio padre continuava a lavorare, come cameriere, nel solito ristorante di Milano. Mi diceva che guadagnava molto dalle mance poiché il locale era frequentato da parecchia gente facoltosa. Gli piaceva come lavoro anche se non era la professione per la quale aveva studiato. Tuttavia mi confessò che il diploma di Geometra lo appese giusto al muro come ricordo, in quanto non lo appassionava proprio come lavoro. Infatti, nel passato fece il semplice impiegato in una ditta produttrice di schede elettroniche. Invece a me piaceva molto come professione e infatti feci un lungo periodo di tirocinio presso un’impresa edile di Mortara per poter, successivamente, fare gli esami di Stato per l’iscrizione all’albo dei professionisti.
Comunque, non guadagnando molto, essendo un lavoro di praticantato, intanto andavo a lavorare anch’io, come cameriere, in un bar di piazza Ducale in Vigevano, proprio come faceva mio padre da giovane e quando tornò dalla travagliata avventura in Brasile.
Di farmi la ragazza non ci pensavo proprio, anzi, più Giulio mi tormentava per trovarla e più mi passava la voglia di cercarla. Era un po’ come una reazione di disobbedienza verso mio padre che mi assillava. Ho avuto occasioni, belle ragazze clienti del bar in cui lavoravo, che mi facevano il filo, ma mi sembravano troppo stupide. Preferivo attendere l’amore vero e non fare sesso tanto per farlo.
E così, sulle soglie di ventidue anni, ero ancora vergine e mio padre non lo sapeva, ovviamente, altrimenti chissà cosa avrebbe combinato. Un giorno, gli mentii, facendogli credere che ero andato a letto con una mia compagna di scuola delle superiori e lui fece i salti di gioia come un bambino al quale gli avevano fatto credere che Babbo Natale esisteva veramente.
Ma un giorno, proprio quando mia madre Lucilla sembrò che si stesse riprendendo abbastanza bene dalla depressione, grazie a una piccola attività di insegnante di supporto per bambini disabili, in una scuola elementare di suore in Vigevano, avvenne la tragedia. E quel giorno fu proprio il mio compleanno.
Era inverno, il 5 febbraio, un venerdì e mio padre organizzò una piccola festa alla sera presso il ristorante in cui lavorava e così ebbe l’onore (sue testuali parole) di farmi da cameriere, con tanto di smoking bianco e farfallino nero, noleggiato appositamente per me, per quel giorno. C’erano gli stessi amici della mia festa del diploma ma era assente mia madre Lucilla, non stava bene e insistette che assolutamente il compleanno dovesse essere festeggiato al ristorante. Lei si collegò con noi verso le ventidue, attraverso la videochiamata WhatsApp, ma vidi che il suo sorriso era ancora più forzato del solito. La serata al ristorante terminò verso mezzanotte e tornai a casa con mio padre dopo circa mezz’ora. Quando varcammo la soglia trovammo una macabra sorpresa: c’era Lucilla sdraiata sul divano che stava di fronte all’ingresso. Occhi vitrei spalancati verso di noi, come se ci stesse attendendo. Indossava solo i pantaloni del pigiama e una t-shirt e aveva il braccio sinistro, penzolante verso il basso, tutto insanguinato. Per terra c’era un abbondante pozza di sangue e vicino una lametta sporca di rosso. Mio padre fece un urlo straziante e andò verso di lei per farle una sorta di massaggio cardiaco, ma era ormai morta, mentre io rimasi inerme a osservare con occhi che lacrimavano in abbondanza.
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