The Beauty of death – Chapter 2
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La bambina era nella solita posizione, con i gomiti appoggiati ai piedi del letto, pronta ad ascoltare il nonno.
Il vecchio ringraziò Giovanna per avere accompagnato Angelica da lui, anche se non aveva da fare compere nel centro di Pavia. La figlia e la nipote abitavano a Bereguardo, in una villetta indipendente con giardino, a circa mezz’ora d’auto dal monolocale. Pertanto Giovanna si sobbarcava l’impegno di fare il viaggio andata e ritorno, solo per accompagnare la figlia. Ma lo faceva volentieri, perché era comunque un’ottima occasione per permettere ad Angelica di frequentare il nonno più assiduamente, dato che egli risiedeva a Corbetta, ben molto più distante da loro e con un traffico maggiore lungo il percorso. Ci fu, inoltre, un lungo periodo di confinamento a causa dell’ondata epidemica del Covid-19 (in gergo “lockdown”) che durò in gran parte del periodo primaverile. Le persone erano obbligate a stare nelle proprie case e potevano uscire solo per fare la spesa vicino alla propria dimora, recarsi al lavoro (a chi era concesso), oppure per visite mediche necessarie. Il tutto dichiarato con tanto di autocertificazione al seguito. Angelica e il nonno erano quindi rimasti parecchio tempo senza vedersi.
Stava per avvicinarsi l’estate e le attività scolastiche terminarono anzitempo, a causa del pericolo del contagio epidemico. Chiusero quasi tutti gli esercizi pubblici e i luoghi di spettacolo e cultura. Chiusero anche parecchie industrie e imprese che ricorsero alla Cassa Integrazione. La riapertura sarebbe avvenuta, gradatamente, solo dopo il superamento della prima fase d’emergenza del Coronavirus. La madre Giovanna faceva l’avvocato civilista in uno studio di Abbiategrasso, nella provincia di Milano. In quel periodo post-lockdown aveva la possibilità di lavorare da casa con il computer in remoto, in qualsiasi orario della giornata (in gergo smart-working) e comunque, tanti colloqui lavorativi con i clienti, li effettuava in video-chat con lo smartphone. La bambina aveva tanto tempo libero e poteva stare tranquillamente, tutta la mattina, da sola con il nonno. Sguardi d’intesa fra Evaristo e Angelica. Sorrisi, e la narrazione continuò sul periodo delle scuole elementari vissute dal nonno…
<<Il mio maestro delle scuole elementari di Cassinetta di Lugagnano si chiamava Egidio Comolli, ma tutti lo chiamavano “Ranghito” perché era un tipo un po’ curvo di spalle. Era un amante della storia e pertanto gli piaceva raccontarci i fatti di guerra che aveva vissuto come Ufficiale di Cavalleria. Era coetaneo di mia madre Ludovica con cui amava soffermarsi a parlare. Io ero un bambino molto timido e lui faceva apposta a farmi spaventare. Ai tempi portavo gli occhiali e i miei compagni di classe, spesso, mi prendevano in giro. La cosa per me era motivo di sofferenza e mi vergognavo. Ogni tanto scoppiavo a piangere e lui, Ranghito, sorridendo, mi diceva con tono beffardo:
Leoni, non piangere perché ti si sciolgono gli occhiali.
E così peggiorava la mia situazione.
Il mio compagno di banco – allora c’erano quelli di legno, neri, solcati da tagli fatti da generazioni di scolari – si chiamava Paolo e tutti lo chiamavano Marnon, che non era altro che la storpiatura dialettale di Marinoni, il suo cognome. Aveva i capelli talmente neri, che se un corvo si fosse posato sulla sua testa si sarebbe tranquillamente mimetizzato. Mentre io avevo i capelli castano scuri, proprio come te Angelica.
Il padre di Paolo faceva il marmurin dato che il suo lavoro consisteva nella lavorazione dei marmi che servivano, soprattutto, per preparare le tombe dei morti. Allora, per la gente di paese, era un vanto poter fare, per il caro estinto, il monumento più bello. Ma costava parecchio e non tutti avevano la possibilità economica di gravarsi una spesa non indifferente. Andava a finire così: che i più poveri dovevano accontentarsi di essere seppelliti sotto a un cumulo di terra con la croce in testa, su cui venivano incisi nomi, cognomi e date di nascita e di morte. Però, a volte, queste tombe erano le più belle. I parenti le addobbavano con fiori di campo – coi crisantemi, che si coltivavano nell’orto, nel periodo della ‘Festa dei Morti’. Le persone più povere e, quindi, di solito, le più semplici manifestavano in questo modo il loro affetto per chi avevano perso.
Mi ricordo di un giorno in cui Paolo mi invitò nell’ambiente di lavoro del padre. C’era una grande umidità perché i marmi venivano tagliati con dei potenti getti d’acqua. Rammento di un altro compagno di classe: Francesco chiamato Cecco. Aveva la particolarità di avere un occhio azzurro e uno marrone. Era figlio di un camionista che aveva il garage con due camion proprio nel cortile della scuola. Si chiamava Sergio ed era proprio un cliente e amico di mio padre che faceva il meccanico. Dalle finestre, ogni tanto si sentiva frum! frum! Era il rumore dei motori che rimbombava e che Francesco ripeteva facendo vibrare le labbra, con tanta forza da perdere perfino la bava. Venni a sapere che anche lui, da grande, fece il lavoro del padre. Cecco era un tipo piuttosto sveglio e, oltre a essere un gran compagnone, amava fare scherzi alle ragazze. Cosa per me impensabile, a quei tempi. Fatto sta che un giorno doveva essere andato giù troppo pesante con una di loro, la quale andò subito a lamentarsi col maestro. Comolli chiamò Francesco, lo portò fuori dalla classe, lo rinchiuse in un magazzino vicino, per non farsi vedere, e lo riempì di botte.
Quando Cecco rientrò, rimanemmo tutti di stucco! Aveva il naso rigonfio da cui perdeva sangue e l’occhio azzurro era diventato marrone, come l’altro, a causa di un livido sul sopracciglio. Da allora, mi chiesi sempre come il maestro non si sia reso conto delle possibili conseguenze.
A parte che, comunque, ai miei tempi, quando uno scolaro andava a casa a raccontare di averle prese dall’insegnante, riceveva in cambio altrettante botte. Guai a dubitare dell’autorità del maestro:
“Se te le ha date, vuol dire che tele meritavi! E basta!”
Ma quel giorno, Comolli aveva proprio perso la trebisonda e se n’era accorto pure Don Maurizio, il nostro insegnante di Catechismo, che fece un’espressione sbigottita nel vedere il viso tumefatto di Francesco.>> Evaristo si fermò un attimo, prima di continuare nel racconto della sua infanzia e vide che la nipotina non dava nessun segno di stanchezza e distrazione, anzi era sempre molto attenta ad ascoltarlo. <<Ora Angelica ti racconto di un aneddoto che capitò alla festa di Carnevale e che riguardava sempre il maestro Comolli. Durante l’intervallo del mezzogiorno – allora non c’era la refezione, per cui ognuno andava a casa propria per mangiare – ci si ritrovava tutti nel cortile della scuola. Un certo Mario, soprannominato Tarzan, aveva una pistola scacciacani e si mise a sparare dei colpi. Fatto sta che uno dei miei compagni avvicinò l’occhio alla fiamma sprigionato dalla pistola, facendosi del male. Se ne accorse il maestro e intervenne con il suo solito metodo: portò Mario nel solito magazzino e lo riempì di botte.
Ma questa volta Comolli non la passò liscia.
Il bambino era figlio unico ed era orfano di padre, morto in un brutto incidente sul lavoro. Era pertanto un perfetto ‘cocco di mamma’. Così la madre, il giorno dopo, al termine delle lezioni, attese il maestro in piazza e lo prese a sua volta a schiaffi. Comolli fece una pubblica figura meschina e da quel giorno non toccò più un alunno, nemmeno con un fiore.>> Proprio mentre il vecchietto stava terminando di raccontare l’aneddoto, entrò nella camera l’infermiera factotum Stefania con il medico di base per visitarlo. La bambina uscì in anticamera per una decina di minuti e poi rientrò, dopo che l’infermiera, insieme al medico, una volta varcata la soglia, le fece un cenno con la testa sorridendole.
<<Ora vorrei raccontarti di Don Maurizio.
A mezzogiorno si dovevano suonare le campane. Il sacerdote veniva a prendere qualcuno – eravamo in quinta – per portarlo nella torre campanaria. Era il momento più atteso della giornata; tutti i maschi erano lì che aspettavano che arrivasse nella speranza di essere chiamato – era una forma di liberazione. Di solito chiamava quelli che erano in grado di smuovere una campana. Si trattava addirittura del campanon, la campana più grande e, quindi, la più pesante. Una volta ci andai anch’io. Ebbene, non toccai nemmeno la corda, rimasi a guardare i miei compagni che si davano un gran da fare a tirarla uno dopo l’altro, fin quando non riuscivano a produrre i primi rintocchi. Allora la campana cominciava a oscillare e una strappata dopo l’altra, finalmente, si sentiva don! don! don! don! Era mezzogiorno!
Questo episodio me ne richiama un altro.
Le campane, a quei tempi, avevano una funzione molto importante. La gente capiva, attraverso il loro richiamo, cosa stava accadendo in paese. La loro funzione principale consisteva nell’avvisare, prima di ogni messa, quanto tempo mancava prima dell’inizio della cerimonia. Se la messa, ad esempio, era alle dieci e trenta, alle nove quarantacinque c’era il primo scampanio – era la prima. Alle dieci veniva suonata la seconda ed alle dieci e quindici la terza – praticamente ogni quarto d’ora. Allora la gente sapeva quando andare in chiesa. Purtroppo, quando si sentiva un rintocco grave e lento vagare per l’aria, era segno che qualcuno era passato, come si dice, a miglior vita. Ma quando c’era qualche matrimonio oppure c’era festa grande in paese allora sì che sentiva invadere l’atmosfera d’uno sfavillante concerto di campane: daaan! – din! don! – din! don! – din! don – din! don! din! dan! – din! dooon! Non esagero, si trattava di un vero e proprio concerto che rallegrava gli animi facendo dimenticare, per un momento, le magagne della vita. Non era necessario andare alla Scala. Il maestro concertatore era, nientemeno che Carlètou secrasti, vale a dire il sacrestano del paese. Era un omino asciutto, sempre serio e piuttosto nervoso. Ma quando entrava in torre il suo volto cambiava. Aveva a disposizione cinque campane. Alla grandezza di ogni campana corrispondeva una corda, piccola o grande. Per distinguerle si usavano i numeri. La prima era la più piccola, poi c’era la seconda, la terza e così via fino alla quinta, il campanon, appunto. Ed ecco il sacrista entrare in azione. Cominciava: prima, seconda… e così via secondo una serie di combinazioni e di scambi che solo lui poteva decidere un po’ per abitudine. Ma quando improvvisava, allora sì che le campane prendevano a squillare inseguendosi, scavalcandosi, accavallandosi. Allora si vedeva la gente alzare il capo a guardare verso la torre campanaria e potevi sentire qualcuno commentare il risultato della scampanata che esclamava: “Questa sì che a l’è buna!” (È stata proprio bella). Vedere il sacrista Carletto dirigere i campanari era come assistere ad un concerto di Von Karajan. Da questo grande direttore la musica pareva uscisse dalle sue mani. La direzione del Carletto (Carlètou secrasti), invece, era fatta di sguardi sommessi, di cenni muti. Così riusciva a dar vita alle sue orchestrazioni: prima, seconda, terza… e la musica iniziava.>>
Nonno Evaristo era ormai un fiume in piena di ricordi.
<<È giusto il momento di parlare dei nostri giochi. Uno di questi si chiamava “Furnara buciaresti in pè la tola.”
Si svolgeva nella piazzetta in terra battuta antistante la scuola. Si mettevano una sopra l’altra #carlobianchiorbis ne tolle (barattoli di vernice vuoti) al centro dello spiazzo in terra battuta. I lati della piazzetta erano contornati da piante, platani ed ippocastani. Su uno di questi tracciavamo la linea, che non si poteva superare, che andava da un platano a un altro. Vinceva chi con un colpo – utilizzavamo un sasso – riusciva ad abbatterne il maggior numero. Ma il bello consisteva nel ripetere, a ogni tiro, “Furnara buciaresti in pè la tola” come fosse una formula magica. E, grosso modo, significava: Che la fortuna mi assista nell’abbattere i barattoli.
Vicino alla piazzetta, c’era un tratto di strada che fiancheggiava la chiesa in mattoni, dove si svolgeva il gioco del “Salta! Salta! Cavalina!”
Si cominciava a fare due squadre formate al massimo da cinque, sei di ragazzi. Si tirava a sorte, chi perdeva andava sotto. Si formava una fila nella quale uno si appoggiava all’altro piegandosi in avanti, costituendo, così, una specie di ponte dove gli archi erano le nostre schiene. Il primo si metteva contro il muro tenendosi ben saldo, dato che doveva fare testa di ponte; se cedeva lui, era facile che saltasse tutto il gruppo. Gli altri si mettevano in fila e, uno dopo l’altro, saltavano sulle schiene di quelli che stavano sotto – da qui il significato dell’andare sotto. Un altro gioco lo chiamavamo “Tulin.” Prendevamo i coperchi delle scatole di lucido ‘Brill’ oppure i tappi delle bottiglie delle bibite. Si svolgeva sui gradini posti all’entrata della chiesa. Tiravamo a sorte chi doveva partire per primo. Li lanciavamo con un colpo del dito indice che partiva come un elastico dopo averlo teso col pollice, la “Couclada.” Quando si arrivava a una curva, dato che il gradino non era diritto, tiravamo una riga perpendicolare a essa. Arrivava primo chi raggiungeva con meno colpi il fondo del gradino.
Durante le vacanze estive mi divertivo a giocare col mio amico Nino. La sua era una famiglia di agricoltori. Lavoravano la terra e avevano dei grossi fienili dove raccoglievano anche la paglia di frumento. All’interno avevamo ricavato una specie di locale dove ci ritiravamo come se fosse un rifugio. Un giorno io mi son fatto male alla gamba urtando un chiodo arrugginito che spuntava da una trave. Corsi a casa spaventato. Per precauzione mia madre mi portò dal medico che mi fece l’antitetanica.
Quando invece era inverno ci ritiravamo nella stalla dove c’era, assieme alla puzza del letame, un bel tepore. Ci sedevamo nella baita del “Cap famei” (il capo dei famigli che mungevano e pulivano la stalla). Qui ci divertivamo a giocare a “Roba maset” con le carte. Uno vinceva se riusciva a portare via tutte le carte dell’avversario. Nino era di una fortuna sfacciata! C’erano delle regole. Con l’asse uno portava via tutto quello che c’era sul banco. Poi veniva il re che mangiava la donna, questa il fante e così via. In due era la carta che valeva meno di tutte. Sul soffitto della stalla s’apriva una botola che comunicava sul fienile di sopra. Da qui i famei buttavano in stalla con la forca il fieno da dare da mangiare alle bestie, oppure la paglia pulita con cui facevano il letto alle mucche. Infine, riguardo la quinta elementare, avevo una maestra che tutti chiamavano la “Biounda” (la bionda). Era una bella signora. Si diceva che fosse divorziata, il che costituiva uno scandalo. Ma, a lei, non è che se la prendesse più di tanto. Era sempre sorridente e aveva un carattere dolce. Io occupavo un banco al centro della classe.
Un giorno mi interrogò sulle tabelline. Mi pare che mi avesse chiesto 2X3, o qualcosa di simile. M’ero fissato e devo aver scambiato il 2X3 con 2+3 per cui rispondevo sempre 5! La maestra, conoscendo il mio carattere molto timido, per un po’ insistette, poi lasciò perdere e si mise a sorridere dolcemente.
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