> CAPITOLO 4 < THE BEAUTY OF DEATH

The Beauty of death – Chapter 4

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Era mattina. La figlia e la nipote di Evaristo stavano facendo colazione nella loro residenza di Bereguardo.
<<Si è fatto vivo tuo padre. Mi ha scritto un messaggio. Evidentemente il periodo di lockdown deve averlo fatto meditare molto e ora ha tanta voglia di incontrarti, Angelica. Ti organizzo un incontro con lui?>> Edoardo, il papà della bambina, quando la compagna Giovanna rimase incinta, all’età di trentasei anni, dopo alcuni anni di convivenza, riconobbe Angelica come sua figlia ma abbandonò la madre mettendosi insieme a un’altra donna, la cui relazione durò comunque giusto qualche mese. Frequentò diverse donne, soprattutto più giovani di lui, non superando mai i 3 mesi di convivenza. Il celibato divenne per lui una filosofia di vita. Architetto affermato di Monza, proveniente da una famiglia facoltosa di Milano, mantenne sempre l’impegno di passare gli alimenti alla figlia, ma non volle mai incontrarla. La bambina aveva conosciuto Edoardo solo attraverso le fotografie e quanto riferito verbalmente dalla madre riguardo il carattere e la personalità. Nient’altro. Era per lei come se fosse un padre defunto dalla sua nascita.
<<No mamma, digli che non mi sento ancora pronta. Se ci tiene così tanto conoscermi, potrà attendere ancora qualche mese, anno. Così vediamo se la sua improvvisa indole paterna è dovuta solo all’emozione effimera del momento, oppure no.>>



Giovanna annuì con la testa e bevve del latte dalla tazza, osservando la figlia che stava mangiando serenamente un croissant. Pensò che, nonostante fosse stata abbandonata dal compagno, aveva cresciuto molto bene Angelica: molto giudiziosa, sveglia, intelligente e già dotata di una maturità precoce. Andava molto fiera di sua figlia e anche di sé stessa.
<<Cambiando discorso, mamma, visto che non possiamo andare dal nonno in questi giorni, mi faresti leggere le sue lettere che fece in gioventù alla nonna Lorenza e delle sue memorie? E volevo vedere anche tutte le fotografie che conservi del nonno.>>
<<Ma certo amore>>, rispose Giovanna.
Angelica guardò tutte le fotografie. Da quelle in bianco e nero, un po’ logore e sbiadite che ritraevano il nonno e i suoi familiari, fino a quelle a colori, meno vivi e infine con colori più nitidi, perché più recenti.
Confrontò le foto della sorella Enrica a quelle di Evaristo quando erano bambini e notò che si assomigliavano molto, soprattutto dallo sguardo. Fece altrettanto con le foto del fratello Enrico, ma la somiglianza non si notava.
Si mise a sorridere quando le capitò fra le mani la fotografia che ritraeva Evaristo che indossava il grembiule, mentre stringeva una palla. Era effettivamente ritto in piedi, rigido. Traspirava dai suoi occhi un certo timore che evidenziava un po’ di tensione: erano spalancati, sbarrati.
“Proprio come me l’ha descritto il nonno l’altro giorno”, pensò la bambina.
Quando Angelica ebbe finito di vedere le fotografie, cominciò a leggere le lettere stese in bella grafia, in corsivo, dal nonno. La bambina notò che erano scritte in maniera fluente, come se Evaristo stesse raccontando a lei, a voce, i suoi ricordi. Erano lettere, tutte con un titolo di testa, come se dovessero far parte di un romanzo ed erano in ordine cronologico, seguendo una successione numerica degli avvenimenti più significativi.
Mentre leggeva le sembrò che il nonno fosse lì con lei.



PRIMA LETTERA – IL MIO COLPO DI FULMINE (LORENZA)



È incredibile che io abbia avuto un colpo di fulmine con una donna a Canazei, in un’estate, quando ero in una vacanza premio in Trentino Alto Adige con i miei genitori, per aver superato con ottimi voti il secondo anno di università a Milano. E lei, Lorenza, lavorava come cameriera nell’albergo dove alloggiavo. È incredibile perché quella bellissima creatura, con occhi neri da cerbiatta, risiedeva a soli sette chilometri circa dalla mia Cassinetta di Lugagnano e cioè a Corbetta, sempre nella provincia di Milano. Quante volte, quando ero piccolo, i miei genitori mi portavano alla festa patronale di quel delizioso paese. E ci andai, anche in seguito, da giovanotto, con i miei amici d’oratorio a fare le sfide di calcio, nelle sere d’estate, nell’oratorio della chiesa della Madonna dei miracoli. Mi capitò di incontrare delle belle fanciulle che però non mi fecero mai sentire le famose farfalle nello stomaco. E capitò quindi, quell’estate a Canazei, di conoscerla. Lorenza si trovava in quello splendido paese di montagna come vacanza-lavoro. Era ospite dai suoi zii paterni originari del luogo. Le piaceva molto il lavoro di cameriera, sempre a contatto con la gente, e infatti lo si notava dal suo bel visino, sempre luminoso e allegro che veniva molto apprezzato dai clienti dell’albergo.
Fu un colpo di fulmine, oserei dire, così deflagrante che mi fece arrossire come un pomodoro, la prima volta che la vidi. Mi sedetti a tavola con i miei genitori, la prima sera che cenammo in albergo. Lorenza si presentò a noi, per l’ordinazione delle bevande, con un sorriso, così radioso, che creò una magica vibrazione, così incantevole, che entrò nel mio petto e si fece luce nel mio profondo sentimento.
<<Buonasera, cosa desiderate da bere? >> chiese la mia anima gemella.
<<Vorremmo cortesemente mezzo litro di vino rosso sfuso della casa e una bottiglia di acqua naturale, grazie signorina>> disse mio padre.
Poi, Lorenza, sempre sorridendo, rivolse lo sguardo verso di me e disse:
<<Invece lei, bel giovanotto, desidera magari una bibita?>>
Io, già impacciato a causa della mia innata timidezza, non riuscii a parlare. Non riuscii a spiccicare parola, il panico si impadronì di me come una tempesta improvvisa, in una bella giornata di sole. Menomale che mi venne in soccorso mia madre, che ordinò per me quello che solitamente gradivo, quando eravamo a tavola fuori casa: una bottiglietta di spuma.
Ma quella figuraccia barbina, che avrebbe potuto tagliare le gambe, già in partenza, a qualsiasi maratoneta che si accingeva a correre per raggiungere il traguardo dell’amore, invece si rivelò favorevole per far breccia nel cuore di Lorenza.
Infatti, nelle sere successive, mi sbloccai e ordinai con decisione e senza esitazioni la bevanda. Mia moglie colse subito l’occasione per complimentarsi con me, elogiando la mia voce di fronte ai miei genitori. Fu già un’ottima premessa che spalancò le porte per un loro consenso alla mia unione con Lorenza. Colsi quindi subito la palla al balzo. Al pomeriggio sapevo che, intorno alle ore 16, arrivava mia moglie per iniziare il turno di lavoro. Mi organizzai, d’accordo con i miei genitori, per trovarmi lungo la strada che lei percorreva per raggiungere l’albergo. Così feci per almeno tre giorni, duranti i quali scoprii che lei era di Corbetta e in quei pochi minuti che ci frequentammo, riuscii a organizzare con lei un incontro verso metà settembre (quando lei sarebbe ritornata dalla vacanza-lavoro), fuori dalla chiesa della Madonna dei miracoli, al termine della messa delle undici. Pensai, con limitato sarcasmo, che la Madonna fece anche su di me il miracolo di farmi parlare dinnanzi alla beatitudine della mia amatissima moglie.
E così cominciò la mia storia d’amore con Lorenza che portò al non facile matrimonio con lei (spiegherò in seguito il motivo) e poi alla nascita di Giovanna, la nostra unica creatura.


SECONDA LETTERA – IO, LORENZA E I SUOCERI


Quando cominciai a frequentare Lorenza, il vicinato cominciò a chiedersi chi fosse quel bel giovane che le faceva la corte. Mia suocera, chiamata “la Pinin”, diceva sempre, in tono quasi sarcastico, intriso di ironia, che uno era definito bello perché possedeva la bellezza dell’asino. Come a dire che, quando uno è giovane, è scontato che sia bello. Qualcuno le chiedeva se, per caso, non fossi un “teron” – era un modo piuttosto offensivo di riferirsi alla gente che veniva dal meridione d’Italia – perché avevo i capelli castano scuri e gli occhi neri e la pelle piuttosto olivastra. Quando ero piccolo, un vicino di casa, quando mi vedeva, esclamava sempre: “Tal chi al negar” (Eccolo qui il negro) e così io replicavo ironicamente a lui che ero di origine spagnola, anche se provenivo da Cassinetta di Lugagnano. Quando mi ero presentato in casa dei suoceri – “Engiul” e “Pinin” (Angelo Montonati e Giuseppina Trabucchi) a Corbetta – rimasi sorpreso negativamente da come fui accolto, soprattutto da lei. Praticamente mi voltò le spalle come se non volesse vedermi. Non voleva che io sposassi Lorenza. Il motivo principale era dato dal fatto che io passavo per uno spretato, dato che ero uscito dal seminario. Roba da non credere! Quali danni può causare la superstizione! A volte, rovina della gente per un’idea che ci si è ficcata, o ci è stata ficcata in testa. Angelo non parlava perché in casa comandava lei. Lui, invece, era il contrario della moglie. Era un uomo dalle idee molto aperte – non per nulla dipingeva – anche se, pure lui, per via di una mentalità oramai superata, era fisso sulle idee su cui non cedeva. Quello che, ad esempio, io non concepivo era l’ammirazione che nutriva per il fascismo. Per lui Hitler, poi, era un grande uomo perché – lui diceva – era il capo della Germania, lo Stato che stava nel cuore dell’Europa. Disprezzava gli americani e riteneva gli inglesi un branco di prepotenti, dato che volevano dominare il mondo. Guarda che strano! Perché Hitler no? Io non accettavo, sia per educazione che per cognizione, quanto andava ripetendo: era assurdo! Allora, lui, quando si sentiva alle strette cominciava a offendere:
“Tu hai studiato ma non capisci niente! Sei vittima della propaganda!”. Aveva una bella faccia tosta e credeva di esserne esente, mentre tutto quello che pensava e diceva non era altro che il frutto di quello che gli aveva inculcato in testa la propaganda fascista. E non si rendeva conto che mancava di rispetto non soltanto alla sua persona, a suo genero, marito di sua figlia, ma, implicitamente, anche ai suoi genitori, specie suo padre, che aveva tutt’altra esperienza e mentalità. Non lo sfiorava nemmeno il dubbio che, per farlo studiare, i suoi avevano dovuto sborsare fior di quattrini e che dandogli dell’ignorante era come dire che i suoi avevano speso soldi per avere in casa un asino. Ora anche sua figlia aveva studiato ma non l’avevo mai sentito rivolgersi a lei con quel tono presuntuoso. Lui sì che era un dittatore per come parlava, senza rendersi conto di quello che diceva e a chi lo diceva. Fatto sta che, seppur per diversi motivi, entrambi non mi volevano vedere. Io ne soffrii molto. E, mentre io avevo creduto, sposandomi, finalmente, di liberarmi dai miei suoceri, mettendo su una famiglia, ero caduto invece dalla padella alla brace in quanto Lorenza, figlia unica, volle abitare nella stessa casa dei suoi genitori. Era una casa indipendente bifamiliare.
Tuttavia, quando il suocero non si lasciava prendere dai pregiudizi, e dalla propaganda, mi piaceva ascoltarlo. Si metteva a raccontare del modo di vivere del passato, che per me costituiva un qualcosa di istruttivo e affascinante. Raccontava di storie che sicuramente a scuola non si apprendevano.


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