> CAPITOLO 10 < THE BEAUTY OF DEATH

The Beauty of death – Chapter 10

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La mattina del giorno seguente, Giovanna accontentò sua figlia: la accompagnò al Santuario della Madonna dei Miracoli a Corbetta. La bambina non ci era mai stata e desiderava dire delle preghiere affinché potessero aiutare a guarire, nei limiti del possibile, il suo caro nonno Evaristo. O perlomeno non farlo soffrire.
Giovanna, da quando sua madre Lorenza morì di leucemia fulminante, non volle più saperne niente della chiesa e della religione cattolica. Diventò un’atea convinta. Giusto per rispetto dello stato d’animo di Angelica, entrò insieme a lei nel santuario, senza però pregare. Un po’ come una turista che entrava in una sala di un museo, in silenzio e osservava le cose all’interno con più o meno interesse. Non appena entrarono nel locale, dove era ubicata la statua della Madonna con in braccio Gesù bambino, Angelica rimase per parecchi secondi a bocca aperta, a osservare le grazie ricevute dai fedeli. Alcune erano accompagnate con delle foto. Foto di giovani scampati a incidenti in moto, in bicicletta oppure in auto. Rimase colpita da una fotografia dove era ritratta un’automobile tutta accartocciata e la bambina pensò che in quell’incidente, la persona malcapitata aveva ricevuto un vero e proprio miracolo per essersi salvata. Poi, notò anche delle grazie ricevute da persone che erano riuscite a mettere al mondo dei figli insperati e le venne in mente a quanto aveva scritto suo nonno nella lettera, in merito alle tante preghiere che aveva fatto la nonna Lorenza. Così, cercò la grazia che sicuramente i nonni avrebbe appeso, dopo la nascita di sua madre Giovanna, e la trovò. Si sedette e si mise a leggere la preghiera scritta su un opuscolo raccolto all’ingresso del santuario. La lesse per ben sei volte e recitò, a seguire di ciascuna, altrettante sei “Ave Maria” e nel frattempo Giovanna uscì all’aperto ad attenderla:

“O Vergine santissima, operatrice amorosa di tanti miracoli, che dall’immagine dipinta sulla porta della chiesa, scendesti mirabilmente nella piazza per riprendere il tuo Bambino, dopo aver sorriso ai giochi di alcuni fanciulli e reso l’udito e la parola a uno di essi, scendi ancora col tuo gran cuore in mezzo alle nostre popolazioni, alle nostre case, ai nostri stabilimenti, alle nostre campagne. Guarda, o Madre nostra pietosissima, quanti ti amano: benedicili; quanti soffrono nell’anima e nel corpo: consolali e guariscili; quanti ti invocano: esaudiscili. Ma soprattutto, o Vergine dei miracoli, ti preghiamo di convertire noi per primi, e poi tante anime lontane e a noi care, che sono divenute sorde e mute alla voce del Signore. Amen…”

Angelica fu soddisfatta e uscì per raggiungere la mamma. Tornarono alla propria dimora a Bereguardo e Giovanna non parlò per tutto il viaggio mostrando un’espressione triste.
Venne notte e la bambina, prima di addormentarsi, pregò e pensò intensamente a suo nonno.
Il mattino seguente lesse un’altra lettera del nonno: la settima.

SETTIMA LETTERA – IL TEMPO VOLA

Era una domenica mattina e dalla finestra scorgevo la nebbia che incartava il paesaggio. Le piante e le case erano come ombre che stavano imbalsamate e io le stavo a guardare. Aprii la finestra e fissai i rametti delle piante ondeggiare, mossi dal lieve soffio di un’arietta umida che, di tanto in tanto, arrivava e poi scompariva.
Pensai:

“Che fare? Solo un mese fa era Natale. Alla mia età, l’ideale è riuscire a starsene tranquilli vivendo alla giornata, mentre io sono qui che non sono affatto tranquillo, perché penso al tempo che vola e medito che, se dovessi morire, non sarei pronto. Quando si è giovani, invece, ci si dà sempre un gran da fare e non si pensa al tempo che passa e alla morte.”

Ricorsi a Kafka. Nel suo Epistolario c’era una pagina per me emblematica. In essa erano descritti, in modo esemplare, gli effetti del tempo che passava e di come ci comportavamo. Tra le righe affiorava il senso di una tragica e malinconica ironia, che mi faceva meditare di come mi sembrava di vivere alla grande. Del tempo non ne facevo un conto. Sennonché, un bel mattino mi svegliai, mezzo addormentato, e mi rendevo conto che era già tardi. E mi sentivo come fregato.

– Eppure non si smette mai di sognare e ci si proietta nelle lunghe ombre della sera che avanza, conservando la speranza; e ci si frega le mani come per dire: dai che ce la facciamo! Anzi, ce l’abbiamo fatta. Quando rimaniamo delusi, aspettiamo che passi. E tuttavia non si impara mai, né mai riusciremo, perché per noi così è naturale. Benché consapevoli, ci ripetiamo: dobbiamo tirare avanti! Accettando quel che ci accade nel bene e nel male. -”
Ed ecco il testo di un epistole di Kafka:

“È molto facile essere allegri al principio dell’estate. Si ha il cuore vivace, un passo discreto e si è piuttosto portati verso la vita avvenire. Si attendono meraviglie orientali, poi si rinnegano con un buffo inchino e con discorsi che ciondolano, e questo gioco mosso ti fa restare a proprio agio e tremare. Si sta seduti sulle lenzuola sconvolte e si guarda l’orologio che indica il tardo pomeriggio. Noi però dipingiamo la sera con colori bene smorzati e con estese vedute in lontananza. E dalla gioia ci freghiamo le mani finché diventano rosse perché la nostra ombra si allunga e diventa graziosamente serale… E se siamo interrogati intorno alle nostre intenzioni della nostra vita, ci avvezziamo a rispondere in primavera con un gesto della mano distesa che, dopo un po’, cadrà come se fosse ridicolo e inutile giurare cose sicure…”

Continuai a riflettere su quanto avevo già letto su Kafka, più volte nel passato:
“Di sicuro, su cui giurare, non c’è proprio nulla. La vita si trasforma in un andazzo fatto di cicli dentro cui ci muoviamo e ci regoliamo. Ai secondi, succedono i minuti; ai minuti, le ore; alle ore, i giorni; ai giorni, i mesi; ai mesi, gli anni fin che duriamo, dentro ai quali ci accomodiamo per trascorrere il tempo che passa. Quante volte si sente dire: facciamo questo, almeno il tempo passa. Dobbiamo arrancarci alla realtà per non volare per aria, non possiamo fare altro. La realtà – chi non lo sa?! – non è lineare come pensiamo nell’istante in cui i nostri passi si susseguono, uno dopo l’altro, senza incontrare ostacoli; se non fai il calcolo delle curve, delle rotonde, dei tornanti vai a finire a sbattere. Quelle che vado scrivendo, in fin dei conti, sono delle banalità perché non c’è essere umano che l’abbia imparato o finirà col farlo. Ma quello che più disturba è il dover constatare che c’è una contraddizione della quale non possiamo liberarci, anzi siamo costretti ad accettarla. La troppa consapevolezza porta alla disperazione ed è una forma di presunzione quella di continuare a rovinarci dentro (che vuol dire: tormentarsi) e questa è stupidità.”
Dalla finestra vidi che la nebbia era rimasta. Il sole non riuscì a spuntarla. Il silenzio sovrastava tutto intorno e raramente si sentiva qualche macchina passare. Stavo aspettando mia figlia Giovanna che tornava dalla passeggiata che amava fare nel parco, portandomi magari delle novità riguardo la gente che aveva incontrato. Poi mi ritirai e mi accomodai sul divano della sala e pensai sempre al mio “amico” Kafka, il quale, colto dalla tisi, aveva imparato a non lamentarsi, anzi faceva di tutto per non perdere contatto con la realtà. Parlava della sua condizione ma non si lamentava, e, quando poteva, consigliava e consolava gli altri. Pensai alla sua fine: morì soffocato senza potersi nutrire. Aveva poco più di quarant’anni. Se fosse vissuto ai nostri giorni, sarebbe stato salvato, grazie ai progressi della medicina. Pensai intensamente al mio avvenire ed era come se ci fosse una scala che dovevo ricominciare a salire. Era come se mi trovavo ai suoi piedi e dovevo ancora compiere il primo passo. Non sapevo dove mi avrebbe portato. Dovevo puntare verso l’alto, senza mai voltarmi, altrimenti rischiavo di fare la fine della moglie di Lot (Patriarca della Bibbia, nipote di Abramo) che, invitata a non farlo, s’era messa a guardare indietro, verso la città che bruciava e venne tramutata in una statua di sale. Il primo gradino mi era costato, tanto ero gravato da un sacco che mi portavo sulle spalle e pieno di zavorre che mi trascinavano verso il basso e che, in gran parte, avevo però già buttato; si trattava soprattutto dei brutti ricordi. Ma sapevo che questo sacco non si sarebbe mai svuotato. Del resto, senza ricordi, anche quelli meno belli, non sarei mai stato un essere umano. Facevano ovviamente parte della mia vita e costituivano le basi da cui ripartire, per poter poi proseguire.
Venne sera e la nebbia non si diradò e pensai che ci sarebbe stato un altro giorno, nella speranza che ci fosse stato il sole.


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2 commenti

    1. carlobianchiorbis ha detto:

      Grazie Silvia 🙏🌷😉

      "Mi piace"

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