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I like to kill – The origins of the Aphorist

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L’aria odorava di pesce fresco e pesche nettarine, tagliate appositamente a metà, dal venditore ambulante, per esaltarne la genuinità. Come gli odori, anche le voci folcloristiche del pescivendolo e fruttaiolo si mischiarono armoniosamente; quasi a dimostrare che quel sabato estivo del 1977, gli ambulanti non dovevano solamente vendere le loro delizie, ma anche saper affrontare impavidamente il caldo afoso. Caldo soffocante che era naturalmente diffuso in tutta la zona circostante a Piazza Calzolaio d’Italia, dove aveva luogo il mercato rionale di Vigevano. Anche una giovane donna che stava sul terrazzo, al quinto piano di un palazzo limitrofo alla Piazza, sentì molto caldo, ma stando appoggiata al parapetto per alcuni minuti, riuscì a percepire un’insperata frescura. Un’arietta di brevissima durata ma quasi refrigerante. Giovanna pensò quasi che fosse una grazia mandata da chissà quale santo. E pensò sì, che fosse proprio un’intercessione mandata da Santa Maria Assunta, prima Patrona di Napoli, la sua città di origine. Mancava ancora un’oretta per preparare il pranzo e la donna ne approfittò per stare ancora un po’ sul terrazzo per prendersi un attimo di svago, dopo aver appena terminato di fare le pulizie domestiche. Si mise a sognare a occhi aperti sentendo la musica del vicino di casa:
Che sei bella da morire, ragazzina, tu. Sul tuo seno da rubare io non gioco più. E sei bella da morire tutto sembra un film. Da girare …
Mentre le note della canzone degli Homo Sapiens, provenienti dalla radio registratore Mivar del vicino, echeggiavano nell’aria, si sentì dal soggiorno, che dava sul terrazzo, una voce da bambino:
<<Mamma, mamma, ha suonato alla porta Rinaldo, posso scendere a giocare in cortile con lui? >>
<<Ma certo amore che puoi scendere, un attimo che ti accompagno alla porta. >>
La madre fece le raccomandazioni a Rinaldo (dirimpettaio del suo appartamento) di avere un occhio di riguardo per il suo bambino che scendeva a giocare per la prima volta. Inoltre contava molto su di lui visto che era più grande di qualche anno. Il bambino, una volta sceso sullo spiazzo, fece subito amicizia con tre suoi coetanei, con i quali si mise a giocare a calcio fino all’ora di pranzo. Oltre a Rinaldo, c’erano altri due ragazzini della sua stessa età: Silverio soprannominato Boia e Roberto soprannominato Casanova. Il soprannome invece di Rinaldo era Iena. Il bambino comprese in seguito, sulla sua pelle, il significato dei loro soprannomi. Quel giorno si divertì un mondo: era la prima volta che dava dei calci a un pallone in cortile e pertanto in spazi molto più ampi dell’anticamera di casa sua. Era un grande cortile a forma rettangolare con la pavimentazione in cemento. Il padre Agostino, vigevanese dalla nascita, non lo aveva mai fatto giocare col pallone in spazi aperti. Non aveva tempo da dedicare a lui perché lavorava la notte e tornava a casa alle 7 di mattina restando a dormire fino alle 13. Una volta al mese aveva diritto a una settimana di ordinario lavoro diurno, dalle 8 alle 17. Comunque, nei giorni di riposo e nel tempo libero era sempre in osteria e ci rimaneva fino a tarda sera. A volte capitava che il bambino veniva spedito dalla madre nella “taverna dei poveri bevitori”, così veniva chiamata da lei, per ricordare ad Agostino che il letto in cui dormire la notte non era il tavolo del bar sotto casa.
Dopo quel sabato giocato a pallone, ne seguirono degli altri piacevoli. A volte si aggregavano anche alcuni bambini e ragazzi provenienti da altri condomini vicini e così venivano organizzati dei mini tornei di calcio; oppure altri giochi divertenti fra cui il rubabandiera e il nascondino. Il nascondino veniva giocato nelle cantine e il bambino vinceva quasi sempre perché si imboscava nel seminterrato dell’infermiere in pensione Maurizio Locatelli. Il bambino aveva scoperto che il proprietario non chiudeva la porta e pertanto si rintanava in un nascondiglio a prova di ritrovamento dei suoi amichetti. Un giorno si accorse che nell’angolo in fondo allo scantinato c’era un sacchetto contenente delle siringhe vuote e ne rubò qualcuna pensando che potevano arricchire la sua valigetta-gioco del dottore. E i giochi del bambino continuarono quell’estate finché un mattino avvenne il primo incontro con le femmine: l’iniziazione di quello che doveva avvenire, il primo incontro col diavolo.
Il bambino fu prescelto a essere il protagonista della prima e delle tante altre cuccagne di Lucifero. Le femmine erano appena tornate da una vacanza al mare ed erano sedute sugli scalini esterni, all’angolo laterale del cortile, che portavano all’ingresso del palazzo. Tutti i bambini e i ragazzini, stavano anche loro seduti sugli scalini vicino alle femmine abbronzatissime: Marcella, Cristina e Tiziana soprannominata Tata (era evidente questo nomignolo per la sua piccola statura). Marcella aveva i capelli lunghi, lisci e biondissimi, occhi azzurri come zaffiri ed era piuttosto snella e profumava di buono, di sesso fresco. Il bambino fu estasiato da quell’odore ma non capiva ancora l’essenza. Era una sensazione che non raccontò mai alla madre, perché la sentiva troppo intima, tutta intorno al suo basso ventre. Marcella era la ragazzina più grande e pertanto era la coetanea di Rinaldo, Roberto e Silverio. Il piccolo e i suoi coetanei non riuscivano a capire i discorsi dei ragazzini, erano per loro incomprensibili. Discorsi dei grandi, discorsi sudici. Parlavano di miniera, a tarda sera dove fare dei giochi divertenti. La miniera era lo spazio angusto e buio, in fondo al corridoio delle cantine, ricavato sotto la scala. A tarda sera, quando i bambini dovevano tornare in casa, Marcella e Casanova si appartavano per giocare nella miniera. Il bambino capiva che c’era qualcosa di strano, che non erano i soliti giochi, sospettò che c’era qualcosa sicuramente di anomalo. Cosicché egli decise una sera di non andare in cortile a giocare, ma di nascondersi nella miniera, seduto in fondo al sottoscala, nell’angolo più oscuro. Avrebbe inventato una bugia alla madre, che sicuramente avrebbe bevuto perché era troppo affaccendata a corteggiare il giovane vicino, che ascoltava le canzoni d’amore dalla radio registratore Mivar; mentre il marito lavorava al turno di notte. Rannicchiato come un gomitolo, si coprì opportunamente con un grande sacco nero della spazzatura, per non essere visto e tenne scoperti giusto gli occhi per vedere, per osservare i giochi insoliti. Arrivò l’orario fatidico e arrivarono anche Marcella e Casanova. Il bambino guardò le loro bocche che cominciarono a baciarsi delicatamente e fin qui non ne fu stupito più di tanto finché, per almeno cinque minuti, le loro lingue si attorcigliarono alternando baci più fragorosi di quelli iniziali. E ancora altri cinque minuti: lingua su lingua, miscuglio delle loro salive e Casanova tolse con decisione la corta sottana a Marcella, le abbassò le mutandine e le accarezzò il pube peloso che il bambino vide perfettamente, nel suo splendore inesplorato, grazie al riflesso della tenue luce fissa proveniente dal corridoio. La ragazzina emise una serie di gemiti di piacere, per almeno un paio di minuti, che aumentarono con l’insistenza costante della mano di Roberto sul suo sesso. Infine Marcella prese in mano il pene di lui, che già sporgeva dai calzoncini, dritto come una piccola mazza da baseball. La percezione anomala del bambino danzava con il suo stato d’animo eccitato, con un ondeggiare così profondo che lo rese partecipe di uno spettacolo per lui quasi metafisico. La mano della ragazzina fece dei movimenti costanti, a stantuffo, tenendo in pugno la piccola mazza del ragazzino. Così per almeno 3 minuti, fino a quando finalmente schizzò dal pene estasiato del Casanova un liquido bianco che, agli occhi increduli del bambino, non poteva essere pipì. Il piccolo capì col tempo che quella magica sostanza, non usciva solamente per dare piacere ma anche per procreare. Anche Casanova gemette, ma solo una volta e con molta più intensità. Marcella e Roberto, terminato l’amplesso, se ne andarono e il bambino rimase lì, per alcuni minuti inebriato, sentendo il profumo sconosciuto della ragazza ma molto più amplificato e così lui capì finalmente che cos’era il buon olezzo che lei emanava. Passarono altre sere e altri incontri sulle scale, altri discorsi sudici dei ragazzi, dei quali ormai il bambino comprendeva il significato. Altre sere passate, nascosto in fondo al sottoscala a guardare, finché Marcella si accorse di lui e decise di tendergli uno scherzo. Erano come solito lei e Casanova ad amoreggiare, ma a un tratto:
<< Dai! Piccolo maialino guardone, esci fuori che ti abbiamo visto! >> disse la ragazza con tono scocciato. Il bambino, molto impacciato si alzò e a testa bassa, senza dire una parola, raggiunse i due “sudici” e cercò di scappare ma Roberto lo trattenne con la forza e disse a voce alta:
<< Ragazzi venite qua che c’è il piccolo guardone! >>
Arrivarono Silverio e Rinaldo e a quel punto Marcella con prepotenza abbassò congiuntamente i calzoncini e le mutandine del bambino e disse:
<< Ma che pistolino piccolo che hai!>>
E nel frattempo Silverio gli pisciò addosso in maniera sprezzante bagnandolo dalla vita ai piedi. Tutti i ragazzini si misero a sghignazzare all’unisono. Finalmente lasciarono il bambino libero di tornare in casa e a piangere a dirotto per tutta la notte, per la grande umiliazione subita. E quella fu la miccia che accese le speranze malefiche di Lucifero. Il bambino pianse per altre notti, finché un giorno:
<<Allora Geppo ci sei? Lo faccio? Sta arrivando il grande momento ormai… >>.

Marcella aveva trovato un lavoretto come garzona dal panettiere. Nelle due settimane antecedenti all’inizio dell’anno scolastico, poteva guadagnarsi un gruzzoletto che le permetteva di comprarsi una nuova t-shirt Fruit of the Loom e un nuovo paio di jeans Roy Rogers. Così poteva fare la figa e arrapare qualche ragazzo più grande delle altre classi. Roberto le era servito, come esperienza, per essere pronta al grande evento: la sua prima grande scopata. La ragazza usciva prestissimo al mattino, scendeva assonnata al piano interrato, per prelevare dalla cantina la bicicletta Graziella. E quello era il momento ideale per mettere in pratica il delitto perfetto. L’atto criminale preparato da tempo dal bambino. Il piccolo sapeva che sua madre aveva passato la serata dal vicino ad ascoltare gli Homo Sapiens e pertanto avrebbe dormito almeno fino alle sette di mattino, felice e beata.

<<Ci siamo, Geppo, sono emozionato, allora faccio come mi hai detto? Non appena lei entra nel suo scantinato, gli sferro un colpo forte con questo martello sulla testa e così procediamo…>>

Non appena Marcella entrò nel locale, prese la bici e si girò, il bambino si catapultò deciso verso di lei e le sferrò un colpo violento sulla fronte. La ragazzina non fece neanche in tempo a focalizzare chi fosse il suo aggressore che cadde a terra e il sangue sgorgante schizzò abbondante sul muro grezzo e anche un po’ a formare una grande pozza sotto il suo corpo. Ma non era ancora morta, i suoi occhi azzurri fissarono il soffitto della cantina come se avesse visto la proiezione dell’aldilà ultraterreno. Mentre Marcella respirava affannosamente:
<<Geppo ci sei? Allora questo punteruolo lo devo conficcare sul petto, zona cuore e il gioco è fatto! >>
Il bambino sollevò la maglietta della ragazza affinché facesse meno fatica a conficcarle la punta dell’attrezzo. Il sangue sgorgò ancora più abbondante di prima, non appena il punteruolo uscì dalle carni della vittima. La ragazzina smise di ansimare e di respirare per sempre. Prima di togliersi il doppio sacco della spazzatura, che aveva indossato opportunamente per non sporcarsi, doveva completare il rito della prima cuccagna: aveva pronta in tasca una delle siringhe rubate a Locatelli. All’interno della siringa il bambino aveva inserito un foglietto al posto del liquido. Conficcò la stessa nell’occhio sinistro del cadavere.
<<Così va bene Geppo? Sono stato bravo?>>
Sul foglietto c’era scritto, con delle lettere ritagliate di giornale e incollate, un breve aforisma di Jim Morrison che il piccolo assassino aveva letto sul giornalino Intrepido:
“Se una mattina ti svegli e non vedi il sole, o sei morto, o sei il sole”.


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