> CAPITOLO 6 < I LIKE TO KILL

I like to kill – Chapter 6

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Salvatore Longobucco si svegliò di mattino presto. Si destò di soprassalto in preda agli incubi, come gli capitava di frequente negli ultimi tempi. I turbamenti notturni si impadronirono ormai del suo inconscio, dopo il fallimento della brutta vicenda di Monza, del caso Atropo. Mentre si alzò dal letto per andare in bagno pensò che forse sarebbe stato il caso di seguire il consiglio della sua cara Martina: prendersi dei giorni di riposo, tanti giorni, e affidarsi alle cure di un bravo psicoterapeuta.

Si sedette sulla tavola del water per espletare i bisogni corporali e pensò alle parole della sua compagna:

“Il mio collega dottor Calloni mi ha detto che lo specialista Riboldi è bravissimo, ci possiamo fidare di lui.”

Mentre Longobucco stava ricordando quelle parole, fece un lieve sorriso amaro e disse a sé stesso:

“Mah, chissà se sarà andata a letto col benemerito collega dottore…”

Così si alzò e andò verso il box doccia cercando di dimenticare il bieco pensiero. Ma mentre l’acqua scivolava sulla sua pelle, fu ancora angustiato pensando alla possibilità che Luca non fosse suo figlio.

“Chi se ne frega, tanto gli vorrò bene comunque in ogni modo, anche se non è sangue del mio sangue.”

Il capo RIS piegò la testa all’indietro accogliendo volentieri l’acqua, leggermente pungente sul suo viso, e sbuffò con decisione aria e acqua calda verso il soffione, quasi come voler scaricare, una volta per tutte, i suoi torbidi pensieri. Ma erano crucci, afflizioni, conseguenti a un ambiguo patto consensuale fra lui e Martina. Terminata la doccia si asciugò con molta calma e andò davanti alla specchiera per farsi la barba. Decise di non utilizzare il rasoio elettrico perché aveva tanto tempo a disposizione, prima di uscire per la colazione. Prese il balsamo barba al mentolo dalla borsetta da viaggio e se la spalmò accuratamente sul viso e parzialmente sul collo e poi, con una lametta usa e getta della locanda, si rase con calma olimpica. Prima di vestirsi di tutto punto si sdraiò sul letto per alcuni minuti a meditare:

“Non voglio più pensare ad Atropo, nemmeno a Martina e all’Aforista. Sto qui, per almeno cinque minuti, senza pensare più a niente, a nessuno, nemmeno a me stesso. Probabilmente è così che deve essere quando si muore, non pensi più a niente e non sei più nessuno.”

Il capo RIS decise di fare una breve passeggiata fino a Piazza Ducale e quindi di non fare colazione nella locanda Vesuvio. Aveva proprio voglia di apprezzare il “salotto d’Italia”, non aveva mai avuto la possibilità di vederlo dal vivo. Il sole era già sorto e l’aria sapeva di buono perché Longobucco aveva voglia, quel mattino, di essere buono, nonostante il suo lavoro gli facesse inevitabilmente pensare al cattivo, alla morte, all’infausto. Nel cielo le nuvole erano come fluttuanti matasse di pelliccia felina rallegrate da un sole che non si vedeva ancora, perché non era ancora alto ed era coperto dai palazzi. Camminando verso la Piazza principale della città, si vedevano ragazzini che si stavano avviando verso la stazione, con destinazione probabile Università di Pavia oppure di Milano, oppure diretti verso le scuole superiori della propria città Ducale. Identificare l’età precisa dei ragazzini, soprattutto nelle femmine, era abbastanza difficoltoso e questo era dovuto alla loro moda, al loro gusto nel vestirsi e nel truccarsi. Stili particolari, liberi, magari opinabili, a volte originali e a volte esageratamente preconfezionati. Comunque una moda che mischiava le carte della loro età anagrafica. Longobucco procedette il cammino lento e imboccò una via sulla sua destra. Al termine della strada a senso unico, arrivò in Piazza Sant’Ambrogio dotata di un grande parcheggio a cielo aperto e vide il sole che era già chiaro, vivido, di buon auspicio per una splendida giornata.

Il maggiore giunse finalmente nella rinomata Piazza e rimase colpito dalla sua luminosità: c’erano i ciottoli di porfido che brillavano come fossero coperti da un sottile strato d’acqua fluviale. Al centro della Piazza c’era una passerella in marmo, appena di fronte alla facciata ellittica dell’imponente Duomo, che iniziava formando un triangolo attorno a una stella di David, raffigurata in ciottoli di porfido giallo. La passerella attraversava dritta tutta la piazza e non si riusciva a vedere il suo punto di arrivo. Osservando i due solenni lati porticati, si rimaneva incantati da tutto il complesso storico rinascimentale. Longobucco rimase strabiliato per alcuni minuti e si diresse verso la caffetteria Rinascimento alla sua destra. Ma non appena si sedette al tavolino all’aperto, udì una voce familiare:

<<Buongiorno maggiore, che piacere trovarla qui di mattino presto. >>

Era il maresciallo scelto Antonio Pennetta, tutto sudato che indossava tuta e scarpe ginniche.

<<Buongiorno maresciallo, sta facendo jogging? Non immaginavo che fosse uno sportivo… >>

<<E sì maggiore, proprio per far scendere un po’ di panza faccio una bella corsetta di mezz’ora mattutina. >>

<<Le posso offrire un caffè, oppure ha ancora tanto da correre?>>

<<Accetto ben volentieri, tanto ero già al termine, stavo già avviandomi a casa. >>

Pennetta si sedette e Longobucco chiamò il cameriere per ordinare brioche e cappuccino per lui e un caffè per il collega.

<<Abita vicino a questa piazza meravigliosa? >>

<<Sì, risiedo in un condominio in piazza Calzolaio d’Italia. >>

Longobucco osservò il maresciallo e notò che in tuta e spettinato assomigliava parecchio al cugino Maurizio della pizzeria Vesuvio: sopracciglia piuttosto folte, capelli neri, occhi azzurri e una fossetta marcata sul mento.

<<Abito lì, fin dalla nascita>> disse Pennetta che si guardò intorno con circospezione, avvicinò il suo viso a quello del maggiore e continuò a bassa voce:

<<Abito proprio vicino al condominio dove risiedeva Maurizio Locatelli, l’Aforista. Sono convinto che fosse proprio lui l’assassino. Da bambino andai a giocare, un paio di volte, nel cortile di quel condominio, prima che avvenisse la mattanza della ragazzina. Ci andai con i miei amici più grandi, che avevano organizzato lì dei mini tornei di calcio. Non avevo stretto amicizia con nessuno, in quelle occasioni, ma mi ricordo della ragazzina, poverina, si chiamava Marcella ed era molto carina. Che fine che le ha fatto fare quel bastardo! Pensi che di lei si diceva che ebbe un incontro spiacevole con Locatelli, alcuni giorni prima che lui l’ assassinasse. Un giorno, quando furono entrambi in cantina per depositare la bicicletta, lui tirò fuori il suo membro e glielo mostrò! Schifoso! >>

<<Bè!? Scusi, e la ragazzina non lo denunciò? >>

<<No! Purtroppo no! Sa come sono i ragazzini, io ero molto più piccolo, poi si sono divertiti a burlarsi di lui, inconsapevoli che avessero a che fare con un assassino.>>

Pennetta bevve il caffè e concluse mestamente, prima di ringraziare Longobucco e salutarlo:

<<Se l’avessero denunciato… >>

Il maggiore salutò il maresciallo facendogli un sorriso amaro e un lieve cenno con la mano.


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