I like to kill – The origins of the Aphorist
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Si sentì una voce da bambino in una stanza buia:
<<Ci siamo Geppo! Ho la pelle d’oca dall’emozione, Silverio chiamato il Boia ha le ore contate. Abbiamo studiato ormai da parecchio tempo un piano perfetto. Saremo finalmente noi, i suoi boia. Non lo chiameranno più così, perché lo elimineremo, scomparirà per sempre dalla faccia della terra. Ti piace l’aforisma che ho preparato ad hoc per lui? Lo aveva pronunciato la Regina di Scozia Maria Stuarda:
“Vi perdono con tutto il mio cuore, perché ora io spero che porrete fine a tutte le mie angustie.”>>
Il ragazzino infilò il foglio di carta, con incollate già le lettere di giornale componenti la citazione, nella siringa vuota e poi mise la stessa nello zainetto, insieme al martello tira chiodi e al punteruolo. Uscì di casa tutto orgoglioso.
Nel frattempo, in un piccolo laboratorio della periferia di Vigevano, il ciabattino Bettuelli stava nervosamente ultimando la produzione del decimo paio di scarpe da uomo, per un suo importante cliente negoziante del centro. Occhi scuri e sguardo deciso, canuto, sopracciglia folte e capelli corti a spazzola, corporatura asciutta ma muscolosa, picchiava concitatamente il martelletto sulla suola e alternava pause di qualche secondo, osservando con avversione il figlio Silverio, che se ne stava tranquillamente seduto a leggere un giornalino di fumetti, dell’eroe Zagor.
<<Silverio! Comincia almeno a caricare le scarpe sull’Ape Car invece che startene a leggere il giornalino, mentre io sono qui a sgobbare! Non vorrai mica farmele caricare a me, spero?>>
Il figlio ingrato sbuffò e rispose:
<<Ma si papà, che palle! Adesso provvedo!>>
Il ciabattino scosse la testa rassegnato e mentre continuava a picchiare con maestria il martelletto sulla suola della scarpa, pensò che fosse un vero peccato di non essere riuscito a trasmettere al figlio la sua arte. Pensò a tutta la clientela che si era procurato e mantenuto, con alta professionalità e tanto impegno, in tutti i suoi anni di attività. Fior fiore di negozianti in tutto il centro di Vigevano. Ditte e commercianti clienti persino di Milano e Pavia che si avvalevano della qualità dei suoi manufatti. Insomma tanti e tanti anni di lavoro, ingegno e sacrifici che sarebbero poi svaniti nell’oblio, perché al figlio non gliene fregava niente della professione del padre. Bettuelli terminò la lavorazione delle ultime scarpe, le pose in una scatola di cartone e chiamò suo figlio più volte. Vedendo che non rispondeva, uscì nel cortile con il contenitore fra le mani e lo trovò tranquillamente seduto al posto di guida dell’Ape Car che si fumava una sigaretta. Il padre scosse nuovamente la testa e, ancora più rassegnato di prima, caricò la scatola sul mezzo di trasporto.
<<Ora puoi partire Silverio, mi raccomando non fermarti troppo nei locali, come tuo solito, sulla strada. Sai che il signor Lazzari ci tiene alla puntualità.>>
Il figlio ingrato azionò il motore del veicolo a tre ruote, mise la mano sinistra fuori dal finestrino facendo il gesto dell’okay con le dita e partì verso la destinazione. Non fece neanche in tempo a percorrere pochi chilometri che già si fermò al bar dove lavorava la sua amica Angela. La considerava un’amica perché era pazzo di lei e sperava che un giorno avrebbe ceduto alle sue avances, mentre lei non lo riteneva affatto suo amico e mai e poi mai avrebbe ceduto le sue grazie a un uomo che, oggettivamente, reputava accettabile come tipo, ma soggettivamente le risultava molto viscido. La barista stava al gioco del playboy da strapazzo del giovane e si divertiva spesso a prenderlo in giro e allo stesso tempo gli spillava un po’ di denaro grazie alle molte consumazioni. Il Don Giovanni dei poveri arrivava anche a spendere, in mezz’ora, trenta, quaranta mila lire in aperitivi. Silverio arrivò davanti al banco sempre con il suo fare da lumacone:
<<Ciao morettona, come stai? >>
La solita frase accolta falsamente da lei con un gran sorriso di labbra carnose e occhi scuri vivaci da cerbiatta. E lui già si scioglieva e metteva mano al suo portafogli per le consumazioni. Mentre lui beveva il primo Campari spruzzato di bianco, lei, con un gran sorriso, camuffava il solito senso di repulsione e la solita riflessione:
“Capelli scuri unti, leggermente lunghi e sporchi di forfora e un pizzetto che invece di conferirgli mascolinità gli dà un’immagine del vero e proprio gay. L’unica cosa di accettabile di questo sfigato sono i suoi occhi comunemente marroni.”
La donna a stento riuscì a mantenere il sorriso di compiacenza e preparò già il secondo aperitivo per il cliente bavoso, mentre all’esterno del bar c’era l’ombra del sole al tramonto, di una persona che incombeva sull’Ape Car. Era il ragazzino, l’Aforista che salì sul posto di guida del mezzo.
<<Hai visto Geppo? Come previsto il Boia ha lasciato la porta aperta e oltretutto la chiave nel cruscotto. Non c’è neanche bisogno di azionare l’accensione collegando i fili, come abbiamo imparato guardando i film polizieschi.>>
Il ragazzino killer partì subito con il mezzo di trasporto. Silverio terminò il terzo aperitivo e salutò la barista Angela con un bacio soffiato, che lei contraccambiò con uno splendido sorriso. Ma non appena lui uscì dal locale, lei tramutò il suo pieno sorriso in una smorfia di totale disgusto. Non appena Silverio mise piede sul marciapiede, si accese una sigaretta tenendo la testa bassa. Fece un paio di tiri sollevando la testa e osservando il cielo, poi volse lo sguardo verso l’Ape Car accorgendosi che non era più dove l’aveva parcheggiata.
<< Porca puttana!>> esclamò a voce alta, facendo un’espressione da ebete. Ruotò su sé stesso di novanta gradi, sulla sua destra e anche sulla sua sinistra, per vedere se per caso si ricordasse male la postazione del parcheggio ma, purtroppo, nonostante l’ebbrezza dell’alcool, si rese realmente conto che l’Ape Car l’aveva parcheggiata proprio lì, e oltretutto con tanto di chiavi nel cruscotto.
Che pirla che sono stato e ora che cazzo gli dico a mio padre? pensò sconsolato e ritornò subito verso casa a piedi.
Il ragazzino killer, nel frattempo, aveva già abbandonato l’Ape Car in un posto dove, sicuramente, non l’avrebbero trovata facilmente e si diresse di corsa, con lo zainetto in spalla, verso un campo, con tanto di erbaccia alta, dove sapeva che sicuramente sarebbe passato il Boia, perché era una scorciatoia per arrivare prima a casa. Lo attese per qualche minuto dietro un grosso cespuglio e non appena lo vide arrivare, a una cinquantina di metri da lui, si posizionò sul sentiero tenendogli le spalle.
Il giovane Bettuelli stava giungendo al termine del sentiero quando vide un ragazzino di spalle che gli bloccava il passaggio e gli sembrò di conoscerlo. Infatti, non appena giunse a mezzo metro da lui, lo vide voltarsi e non fece nemmeno in tempo a esclamare:
<<Ciao, ma sei tu? Che diavolo ci fai qui?>> che subì un fortissimo colpo di martello sulla fronte che lo fece cadere a terra come un sacco di patate. Il sangue sgorgò copioso dalla ferita sull’erba mentre l’assassino osservava con fierezza la sua vittima.
<<Hai visto Geppo? Il Boia bastardo che mi aveva pisciato addosso ora è completamente inerme. È un vero peccato che io non possa urinargli addosso, perché lascerei delle tracce importanti per le forze dell’ordine.>>
Il carnefice decise di conficcargli il punteruolo leggermente e lentamente sul petto, affinché la sua vittima potesse soffrire maggiormente prima di morire. La punta penetrò di pochi centimetri ad altezza cuore e poi ancora altri pochi centimetri intervallati da pause di qualche secondo, mentre il Boia, divenuto agnello osservava il suo carnefice chiedendo invano pietà con occhi lacrimanti… ma la spinta definitiva della mano sul punteruolo pose fine alla sua vita e il sangue formò una grande pozza sotto di lui. La siringa conficcata nell’occhio sinistro del cadavere fu la conclusione dell’opera.
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