> QUARTA CUCCAGNA < I LIKE TO KILL

I like to kill – The origins of the Aphorist

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Il ragazzo aprì gli occhi nel buio indefinito della notte, stando disteso sul letto in cameretta. La visione di Lucifero gli faceva compagnia così come la farebbe, per un ragazzo qualunque, il poster di una star del pallone piuttosto che della musica. Le cuccagne del demonio stavano per terminare ed egli, in cuor suo, sapeva che avrebbe dovuto lasciare in letargo il suo piacere di uccidere per anni, probabilmente molti. Ma voleva gustarsi ancora quelle ore che lo separavano dall’uccisione di un essere umano indegno: la iena Rinaldo Vietti. Rinaldo aveva fatto una promessa alla madre del ragazzo. Una promessa da lui ignobilmente disattesa. Rinaldo doveva avere un occhio di riguardo per il suo bambino e si fidava di lui perché era il vicino di casa ed era più grande. La madre faceva molto affidamento su di lui perché, lei sapeva che suo figlio non era un bambino come tutti gli altri, aveva delle difficoltà di apprendimento. Difficoltà di comprendere le cose luride della vita. Il cuore del bambino era troppo puro e pertanto ancora impreparato alle zozzerie umane. Ma Rinaldo, la iena, aveva portato il bambino nelle fauci indecenti dei suoi amici. Il ragazzo aveva eliminato con piacere gli amici di Rinaldo e rimaneva solo lui da uccidere, e sarebbe stato un delitto nobile, degno simbolo sacrificale per eccellenza. Una celebrazione che egli ricordava di aver sentito a catechismo: il passo della Bibbia che vede Abramo immolare un animale in luogo del figlio Isacco. Ma la sua celebrazione era per Lucifero e così aveva già preparato, la sera precedente, l’aforisma, già infilato nella siringa senza siero:
“Ogni anno oltrepassiamo senza saperlo il giorno della nostra morte (Valeriu Butulescu)”.

E sempre nel buio egli pensò con entusiasmo alle vittime che aveva giustiziato: Marcella, Roberto e Silverio. La visione di Lucifero però cominciò pian piano a dissolversi con la prima luce dell’alba che filtrava attraverso le fessure della tapparella. Il giorno stava per arrivare e così anche la normalità di vita quotidiana ed egli si chiese se fosse riuscito a fare a meno di uccidere dopo l’ultima cuccagna. Perché se è vero che l’ammazzare era per lui la sublimità delle sue emozioni, di contraltare, il non uccidere si sarebbe trasformato in una vita piatta, senza emozioni. Ma non poteva più uccidere senza motivazioni. Rinaldo Vietti era l’ultima missione da compiere, forse l’ultima macabra manna dagli inferi. Il ragazzo sapeva perfettamente che il demonio gli dava la giusta forza soprannaturale per compiere, a regola d’arte, i delitti. Senza cuccagne, senza missioni e quindi senza forza maligna non poteva soddisfare il suo piacere di uccidere. Ormai la visione di Lucifero si era completamente dissolta e il mattino prese definitivamente il posto della lugubre notte. Egli sentì, come sempre, suonare la sveglia per parecchi secondi prima che suo padre Agostino la bloccasse. Il capo famiglia che manteneva lui e la madre Giovanna. Era la settimana delle giornate ordinarie di lavoro: il classico orario dalle 8 alle 17. Quei giorni, anziché fargli recuperare le energie consumate nei turni di notte, lo debilitavano ancora di più, poiché aveva ormai l’abitudine di stare sveglio la notte e dormire di giorno.

La madre non frequentava più il vicino di casa ma aveva un altro amante la cui identità era ignota al ragazzo. La sentiva parlare al telefono e si davano appuntamento in luoghi segreti e capiva che si trattava di un altro amante dal fatto che le brillavano gli occhi, come quando sul terrazzo ascoltava, sospirando, le canzoni d’amore dello spasimante vicino di casa. La madre Giovanna era una brava casalinga ma anche una donna molto passionale tant’è che il marito Agostino non le bastava. Egli attese che il padre uscisse di casa, prima di alzarsi, affinché non intralciasse i tempi preziosi che lui aveva a disposizione per non tardare al lavoro. Ogni volta il ragazzo pensava che fosse veramente ridicolo suo padre, non capiva perché non puntasse almeno dieci minuti prima la sveglia.

<<Bah! È proprio buffo mio padre! >>

E mentre disse queste parole udì un grande frastuono seguito, subito dopo, dalle urla strazianti di sua madre:

<<Agostino! Agostino! Cosa ti è successo! >> e ancora:

<<Agostino! Agostino! Cosa ti è successo! >>

La madre ripeté la stessa frase per ben quattro volte, tanto da destarlo da un’inaspettata trance di spavento, farlo alzare dal letto e uscire dalla cameretta. Nell’anticamera c’era disteso, supino, sul pavimento, il padre. La madre piangeva in ginocchio e cercava di svegliarlo prendendolo a schiaffi. Ma non era svenuto, egli capì subito che era morto, lo vide dai suoi occhi. Gli stessi occhi spalancati e fissi delle sue vittime. L’uomo stava sul marmo color crema brillante di lucidatrice, con occhi sbarrati ma viso sereno e i suoi capelli scuri erano rimasti ben pettinati e leccati con brillantina Linetti. Dal suo cadaverico sguardo placido, sembrava che, prima di esalare l’ultimo fugace respiro, avesse visto probabilmente il bramato aldilà. Il ragazzo in quel momento non provò nessuna emozione, ebbe solo una lievissima compassione per suo padre. Compassione per una morte naturale che Dio aveva indegnamente voluto per lui. Pensò anche che probabilmente quella fosse stata una vendetta contro i suoi piani dominati da Lucifero. Ma nonostante questo che non poteva che essere un avvertimento divino, egli rimandò solo di qualche giorno l’ultima missione diabolica voluta dagli inferi della terra.


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