I like to kill – Chapter 28
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Passarono parecchi giorni dopo l’ultimo omicidio di Gabriele Brusa. Le scuole stavano volgendo al termine e c’era parecchio fermento per gli scrutini di fine anno scolastico e per la preparazione degli esami di maturità. Gli omicidi dell’Aforista avevano molto condizionato il regolare svolgimento didattico dell’Istituto Tecnico. Gli inquirenti ebbero la chiara sensazione che l’assassino volesse attendere la conclusione completa delle attività scolastiche, prima di procedere con il suo ultimo atto diabolico. Pertanto, l’omicidio atteso, l’ultimo omicidio dell’Aforista non avvenne ancora. E il serial killer non venne ancora smascherato. Cosicché il maggiore Salvatore Longobucco colse l’occasione per passare finalmente qualche giorno di riposo a Parma dai suoi affetti (nella sua “home sweet home”): dalla compagna Martina e il figlio Luca.
Invece, il collega tenente Gornati sarebbe andato a trovare un suo cugino ad Abbiategrasso, nella provincia di Milano, a pochi chilometri da Vigevano.
Il vice capo RIS parcheggiò la sua Peugeot 3008 BlueHDi 120 S in un piazzale adiacente la stazione ferroviaria, in prossimità del centro della località milanese. Quando scese dall’auto notò una grande residenza di tre piani, di fronte alla stazione, che ricopriva un’area larga almeno duecento metri. Il palazzone, di colore prevalentemente giallo paglierino e grigio ardesia, si fregiava di taluni bassorilievi grigi, metallici, posti a un’altezza fra il secondo e il terzo piano. Le sculture moderne, se così si potevano chiamare, sembravano delle riproduzioni di soggetti dell’epoca precolombiana. Il tenente notò che erano distribuite su quasi tutta la facciata della residenza ed erano collocate ogni due appartamenti a ricoprire una buona parte del pluviale. Notò inoltre che sotto ogni faccione c’era inciso, ben leggibile, un numero romano.
Guardò dal primo faccione e c’era I e poi il secondo… II e il terzo… II e quindi il quarto… IX.
Che strano, pensò.
Così, molto incuriosito, si spostò al limite del parcheggio, alla sua destra e vide sotto gli ultimi tre faccioni XVII, XVII e infine XIII. Egli rimase lì, sul posto, a pensare per alcuni minuti, tenendo la mano destra sul mento.
I, II, II e poi IX e infine XVII, XVII, XIII, devono pur significare qualcosa…
E così Gornati cominciò a contare con le dita della mano, meditando con molta concentrazione finché gli si accese la lampadina. Disse a sé stesso a bassa voce:
<<Ma certo! I, II, II e poi IX corrispondono ad A, B, B e I, mentre XVII, XVII, XIII a S, S, O; il tutto crittografato, senza considerare le lettere straniere, corrisponde ad Abbiategrasso. Ma vaffanculo, va!>>.
Sorridendo, si incamminò verso il centro dove aveva l’appuntamento in un bar con suo cugino Alessandro. Attraversò un passaggio pedonale che portava su un ponte, in mezzo a una zona ampiamente alberata. C’erano parecchi alberi, alla sinistra dell’uomo, disposti a formare un parco che si estendeva di fronte a tutta la stazione e tutto il grande palazzo con i faccioni, mentre, alla sua destra, lo stesso terminava, poco oltre circa 50 metri, di fronte al passaggio a livello e a un altro piccolo parco dove si intravedevano dei vecchietti seduti intorno a un tavolo di marmo. Gornati, dalle grida che provenivano da loro, intuì che stessero giocando a carte. Il tenente notò che la struttura del ponte era, nella parte superiore, in pavimentazione moderna fatta in lastre di marmo e c’erano i corrimano di materiale metallico verniciato in colore grigio chiaro. Nella parte inferiore, invece, c’era una muratura antica costituita da archi in mattoni pieni rossi, accompagnati da tanto verde. Il tenente dedusse che il ponte non era una struttura estetica di solo passaggio attraverso il parco ma che molto probabilmente, un tempo, attraversava un vero scorrimento d’acqua. Oltre il ponte terminava il parco e da lì si accedeva al centro. Il tenente notò, prima di abbandonare il giardino, una statua alla sua destra che rappresentava chiaramente Garibaldi e passò di fianco a un grazioso gazebo metallico tutto verniciato di verde, sotto al quale c’era un punto di prelievo di acqua sorgente: notò alcune persone munite di bicchieri di carta che vi si dissetavano. Il vice capo arrivò a pochi metri dal castello Visconteo e passò di fianco al lato longitudinale, costituito da un muro in mattoni pieni e rossi, alto circa un metro e ottanta e sopra di esso una ringhiera in ferro battuto, alla quale c’erano agganciate delle fioriere in continuo. La ringhiera era intervallata da pilastri che erano la base di quattro archi. Pilastri e archi composti sempre in mattoni pieni rossi. Egli riuscì a vedere, attraverso le sbarre del parapetto, la parte alta del cortile interno: una balconata sempre con ringhiera in ferro battuto e, sotto di essa, la parte superiore di cinque finestroni con ampia vetrata ad arco. Notò anche che i quattro archi davanti a lui, in muratura, erano in perfetto allineamento con quelli con vetrata. Una volta che Gornati arrivò nell’omonima Piazza Castello, vide un pino alto quasi quanto l’edificio d’epoca, issato su una zona pedonale a ombreggiare una panchina in marmo. La panchina sembrava che attendesse proprio le sue natiche e così egli si sedette per gustare la facciata principale del castello. La dimora che fu dei signori Feudali non era grande, ma molto graziosa: il classico ponte di ingresso in mattoni pieni che sono il materiale prevalente del complesso medioevale e una fossa che lo circonda solo sulla parte frontale.
“Il castello, se confrontato con quello Sforzesco di Milano, è piccolo come un bungalow ma in questo contesto cittadino è molto bello,” pensò il tenente.
Egli diede un’occhiata veloce alla piazza ruotando il viso di novanta gradi, a sinistra e a destra e disse fra sé e sé:
“Sì, molto bello e perfettamente in armonia con l’ambiente circostante: edifici e natura.”
Il vice capo RIS attese, per qualche istante, che non passassero persone davanti a lui e fece una foto col suo smartphone, si alzò e si diresse verso Piazza Marconi. Attraversò una larga via, con tante vetrine di negozi in entrambi i lati. La pavimentazione della strada era in porfido e lastre di marmo, grigio chiaro, poste in diagonale, a intervalli di circa due metri l’una dall’altra. Incrociò la solita gente comune che anima un centro cittadino in un giorno feriale: vecchietti e vecchiette da soli o con nipotini al seguito. Venditori in giacca e cravatta speranzosi di rappresentare al meglio i prodotti delle loro aziende a negozianti riluttanti. Impiegati di uffici che si possono permettere di uscire per fare la pausa caffè al bar. Ragazzi che marinano la scuola in giro a zonzo e naturalmente, donne e uomini con in mano la borsa della spesa, oppure riviste e quotidiani, fermi sui marciapiedi a chiacchierare tra di loro del più e del meno. Arrivò in fondo alla via sulla sua destra e si trovò a imboccare una graziosa stradina che sapeva chiamarsi (dalle indicazioni fornite da suo cugino) Passaggio Centrale. Era una corta e stretta via, unicamente pedonale, che ricordava a Gornati i tipici carruggi delle città liguri marinare. Al termine della stradina svoltò a destra e si trovò, dopo pochi metri, in Piazza Guglielmo Marconi. Erano le 11 e 30 e il cielo era azzurro con un sole alto e splendente. Come il castello, la piazza nel centro di Abbiategrasso era piccola ma molto graziosa con i suoi portici e le colonne in granito. Vide dei tavolini all’aperto di un bar. Sapeva che il locale pubblico di ristoro era il Piccadilly. Come solito, il vice capo RIS era in anticipo sull’appuntamento e comunque si sedette a un tavolino libero. C’era parecchia gente seduta, per essere un giorno feriale, ma notò che erano in gran parte pensionati. Egli era seduto vicino il portico e osservando il soffitto a volta, sentì una simpatica vocina che le chiese:
<<Buongiorno signore, cosa desidera? >>
L’uomo volse lo sguardo in direzione della voce e notò che era una bella biondina con un sorriso molto gradevole e garbato.
<<Vorrei un aperitivo analcolico, grazie.>>
Il tenente si accese una sigaretta e, non appena fece due tiri, arrivò una persona che non era suo cugino. La persona era vestita sportiva e portava in testa un cappello con una lunga visiera curva. Gornati si alzò stupito, gli diede la mano e lo fece accomodare insieme a lui.
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