> CAPITOLO 32 < I LIKE TO KILL

I like to kill – Chapter 32

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Era giunta la sera e i quattro amici da una vita erano nel bar di Salvatore De Santis. Non sapevano che sotto il solito tavolo, “testimone” delle loro bevute, c’era una cimice. L’aveva piazzata sempre la barista Monica Salmoiraghi, d’accordo con i carabinieri che stavano ascoltando i loro dialoghi in un posto segreto. La ragazza, soprattutto dopo aver intuito che, il “porco” collega barista aveva sicuramente fatto sesso nell’ufficio con la minorenne, ebbe più gusto nel vendicarsi. Essa sperò che se fosse lui l’Aforista e lo avessero smascherato, sicuramente sarebbe stato condannato all’ergastolo e così il sesso, per tutto il resto dei suoi giorni di vita, sarebbe stato un ricordo molto lontano.

<<Ragazzi, c’è qualcuno che ci odia e vuole incastrarci, siete sicuri che non avete qualche conto in sospeso dal passato e non vi ricordate?>> domandò Don Claudio Casnaghi ai tre amici.

Alla domanda del sacerdote seguirono alcuni secondi di silenzio, con in sottofondo la musica soffusa di Battisti. Nessuno rispose a viva voce, ma fece segno di no con la testa. I carabinieri non ebbero un granché da intercettare quella sera perché c’era un clima mesto e di poche parole. L’incontro mondano dei quattro durò poco tempo.

C’era, sul ciglio della strada davanti al locale, un’auto parcheggiata nella penombra. Una mano che teneva fra le dita una sigaretta spuntava dal finestrino anteriore. Era quella di un uomo che fece un ultimo tiro e gettò il mozzicone sull’asfalto. Prese in mano lo smartphone e scrisse un messaggio:

“Ciao mamma, stasera ti manderò qualche foto dei nostri pollastri, così il tuo comandante Pastori starà tranquillo.”

Intanto, nel buio della notte, Longobucco andò di nuovo a percorrere in auto la strada “Chiappana” verso il Ticino. Egli notò che c’era più movimento di auto rispetto al pomeriggio, in quanto c’era la spola delle coppiette di innamorati che si potevano appartare in zone sicure da occhi indiscreti nella boscaglia a ridosso del fiume. Pertanto il capo RIS non aveva intenzione di rimanere in quella zona per molto: non voleva essere scambiato per un guardone. Cosicché egli arrivò con la sua Alfa fino al ciglio dell’inizio della piccola discesa che dava sul Ticino e si fumò una sigaretta senza scendere dall’auto. Fece molta fatica ad accendersi la sigaretta in quanto il suo accendino a benzina era praticamente quasi scarico, esalando giusto un’ultima tenue fiammella. Spense la cicca nel posacenere e tornò indietro sempre insoddisfatto, come nel pomeriggio.

Mentre percorreva la strada di ritorno vide, vicino all’ingresso di una cascina, la sagoma di una persona leggermente illuminata dal chiarore della luna e si ricordò l’uomo vestito in modo bizzarro, che aveva visto alla luce del sole, dallo specchietto retrovisore. Longobucco, non appena lasciò alla sua destra la cascina, guardò ancora lo specchietto sul quale si rifrangeva la forte luce di una torcia puntata sulla parte posteriore della sua Alfa. Gli scattò in mente la scintilla. Fermò l’auto improvvisamente, la parcheggiò nella rientranza di un fosso e mise le quattro frecce. Scese dall’auto e andò con passo veloce e deciso verso l’uomo che era già scomparso. Trovatosi all’ingresso della cascina proferì con voce decisa:

<<So che sei nascosto qui vicino, vieni fuori per favore che ho un regalo per te.>>

Il maggiore intuì che aveva a che fare con un disadattato e pertanto si giocò l’ultima carta del regalo, per cercare di stanarlo. Lo vide, titubante, spuntare da dietro un pilastro, e gli disse:

<<Su! Dai! Vieni qui, non ti mangio mica sai? Devo farti delle domande per gioco. Ho qui questo. Longobucco prese dalla tasca della sua giacca l’accendino zip con coccardina dell’Arma dei Carabinieri. Pensò che fu un bene che fosse scarico, così il beneficiario dell’omaggio non ne avrebbe fatto un uso improprio. Egli decise di sacrificare l’accendino, un oggetto di grande valore affettivo, per una giusta causa. L’uomo arrivò a un metro dall’emarginato che era vestito con una giacca a vento nera extra large, talmente large che non si vedevano neanche le punte delle dita della sua mano. Inoltre aveva i pantaloni (sempre neri) molto consumati e larghi. Il suo viso era tondo, le sopracciglia foltissime brizzolate e i capelli radi e sporchi. Con occhi socchiusi e sospettosi osservava il forestiero vestito elegantemente. Longobucco gli pose in dono l’accendino e l’uomo bizzarro disse un grazie, come se avesse la bocca piena e impastata da dieci chewing gum.

<<Come ti chiami? >>

<<Luchino>>

Il capo RIS rimase per alcuni secondi stupito che l’uomo si chiamasse come il suo bambino, ma gli chiese comunque con decisione:

<<Ti ricordi il numero della mia targa? >>

<< EF035AF>> rispose Luchino, sempre con la bocca impastata.

Il maggiore, soddisfatto per il suo intuito, chiese all’uomo bizzarro altri numeri di targa, che annotò su un file del suo smartphone. Constatò che nella lista c’era anche la targa del vice capo RIS. Egli sorrise all’uomo disadattato, ma dotato di sorprendente notevole memoria, e, incamminandosi verso l’auto, fece una telefonata a un suo caro amico e collega degli uffici RIS di Parma:

<<Ciao Aldo, scusami l’orario, ti mando un file al tuo smartphone. Si tratta di numeri di targa. Dovresti cortesemente fare tutto il possibile per farmi avere al più presto i titolari della targa FM234MK e CP253DV che corrispondono, nella lista: il primo a un veicolo precedente e l’altro successivo al passaggio di Gornati. Per le altre targhe, a seguire appena possibile. Grazie di cuore amico mio, ciao. >>

Il maggiore salì sulla sua Alfa e mentre accese il motore pensò:
“Questa volta mi sa che ti ho scovato maledetto Aforista!”


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