> CAPITOLO 17 < IL MARE FRA DI NOI

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ALCUNI ANNI DOPO… E
“TERZA PARTE”: IL FUTURO INSIEME

Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo. Alcune ci riportano indietro, e si chiamano ricordi. Alcune ci portano avanti, e si chiamano sogni.
(Jeremy Irons)



Sono passati alcuni anni, dopo quella serata alla casa sull’albero, nella foresta Tijuca di Rio de Janeiro.

Questo è il potere della narrazione: siamo al capitolo 17 e se avete appena letto il capitolo precedente, oppure sono trascorsi alcuni giorni, sono qui, al presente, in questo “limbo letterario”, a raccontarvi quello che mi capitò, dopo quella notte passata nella casa sull’albero:

‘Mi ero addormentato, legato al letto con le manette, in seguito a ore di sesso sfrenato con Mariana.
Ma i parecchi giorni seguenti furono una vera e propria avventura al cardiopalmo. Credetemi, letteralmente da grande paura e agitazione.’

Ma per fortuna sono ancora qui, vivo e vegeto per raccontarvi cosa è successo.
Proprio ora sono su un aereo che mi porta a Milano Malpensa. Ma non sono solo, ho accanto lei che mi sorride serenamente ma con un evidente velo di tristezza e molto probabilmente io sono il suo specchio espressivo. Ma vivremo il futuro insieme, sicuramente.
Lascio lei accanto al finestrino e io non ho più paura dell’altitudine, di viaggiare in aereo. Sono squisitamente sereno perché, dopo quello che ho vissuto in Brasile non ho più paura di niente e di nessuno.
Sono andato in paradiso, poi al purgatorio, all’inferno, per poi sopravvivere ed eccomi qui di nuovo in paradiso con lei.
Tra noi due c’è un posto libero che ci divide. Deve tornare a sedersi una persona che si è assentata per andare alla toilette.
Ma chi è? Vi chiederete…
E poi vi chiederete ancora: ma chi è la “Lei” sull’aereo insieme a me?
Ovviamente è una sorpresa, carissimi lettori e lo scoprirete leggendo i capitoli rimanenti di questa narrazione.
E consentitemi una battuta: dopo tutte le sorprese fattemi da Mariana, ho voluto farvene una io, a voi, carissimi lettori.
Mancano ancora un po’ di capitoli più l’epilogo, per soddisfare la vostra curiosità e quindi, bando alle ciance e allacciate bene le cinture con me e riviviamo insieme quello che ho vissuto in quei giorni…



Me la ricordo come se fosse ieri quella notte di qualche anno fa, nella casa sull’albero nella foresta Tijuca di Rio de Janeiro.

Mi ero addormentato stando supino, con i polsi ammanettati allo schienale del letto in ferro battuto, dopo aver fatto sesso pazzesco con Mariana. Anche la mia amante si era presumibilmente assopita, appoggiando il suo viso sul mio petto e stava a pancia in giù. Ma quando mi svegliai di soprassalto, lei non c’era più e mi ritrovai in un luogo che non era più la casa dove ero stato ospitato.

Avevo fatto il medesimo incubo, della notte prima della partenza, in elicottero da San Paolo. Medesimo brutto sogno con delle piccole varianti, come se fosse il proseguimento di una puntata di un serial dell’orrore.

“Mi trovavo nella stessa chiesa, sempre piena zeppa di ragnatele. C’erano parecchi pipistrelli che volavano furiosamente all’interno, come se avessero il terrore di qualcosa di malefico. Osservai meglio i volatili neri e notai che avevano tutti la faccia di Mariana o Lucilla, alternativamente.
<<Ormai è troppo tardi. Te l’ho detto di fare attenzione!>> mi dissero all’unisono strillando”.

Lo stridio nell’incubo era così acuto e insopportabile che mi svegliai. Ma appunto, quando aprii gli occhi mi trovai in un luogo sconosciuto e oltretutto senza la compagnia della mia amante. Mi sembrò di essere in uno scantinato senza finestre e c’era solo una porta grigia di metallo chiusa. C’erano i muri grezzi in cemento e l’ambiente era illuminato tenuemente dalla luce fredda di una lampadina, appesa al soffitto con un doppio filo elettrico.
“Dove caspita sono?” mi chiesi a bassa voce.

Stavo sdraiato su una sorta di branda giallastra e puzzolente e avevo le mani legate, davanti allo stomaco, con un abbondante giro di nastro isolante scuro, intorno ai polsi. Mi alzai in piedi faticosamente perché mi girava la testa e compresi il motivo: avevo la fronte indolenzita e toccandomi, a malapena, con le dita, notai che avevo un bernoccolo leggermente sanguinante.
“Questa volta Mariana sta proprio esagerando! Va bene le sorprese ma il male fisico proprio non va bene, assolutamente no!”, pensai. Meno male che non ero nudo ma portavo addosso i miei jeans e la polo, perché faceva piuttosto freschino e c’era parecchia umidità. La ferita sulla fronte mi faceva sempre più dolore e mi chiesi di nuovo che cavolo di stupida sorpresa avesse in serbo per me la mia amante. Il mio stato di stupore iniziale si stava tramutando, col passare dei minuti, in un’incontenibile agitazione, tanto che mi tremavano le gambe da non riuscire a stare in piedi. Così mi sedetti ai piedi della branda cercando di ricordare come ero giunto in quel luogo, ma non mi veniva in mente niente, avevo il buio assoluto nella testa, da quando mi addormentai nella casa sulla pianta.
Ma quando si aprì la porta, mi ricordai di quello che era successo, prima di trovarmi in quel luogo:
Entrò un uomo con le sopracciglia scure foltissime, capelli neri lunghi e ricci. Mi ricordai di lui che mi sferrò un colpo sulla fronte, quando mi svegliai di soprassalto.
La mia mente fece un veloce replay di quello che mi capitò: Sentii le urla di Mariana che vidi, di sfuggita, completamente nuda, portata fuori dalla casa con la forza da due grossi individui incappucciati.
Mi ricordai di quell’uomo che aveva degli occhi scuri come se fossero senza pupille. Era altissimo, tanto che lo vidi entrare nel locale abbassandosi di parecchi centimetri, per non sbattere il suo capo sullo stipite alto della porta. Ero letteralmente terrorizzato perché compresi che ero stato, molto probabilmente, sequestrato e sperai, nel profondo del mio cuore, che non avessero fatto del male a Mariana.
Mi alzai giusto in piedi, sempre faticosamente ed ero talmente terrificato, che non mi accorsi che il bestione era, in pochi secondi, di fronte a me. A una spanna di distanza e senza proferire parola mi afferrò un braccio con la sua manona pelosa e mi portò, prepotentemente, fuori dallo scantinato in un altro luogo.

Attraversammo un lungo corridoio sempre senza finestre e sempre illuminato da lampadine appese con due fili al soffitto, ogni quattro metri circa l’una dall’altra. L’uomo “gigante”, che mi condusse con la forza, aveva proprio le sembianze di un orco, soprattutto nelle zone del corridoio dove c’era più oscurità. Fra un cono di luce e l’altro, i riflessi chiaro-scuro sul suo viso, creavano l’effetto ottico di piccoli solchi, che lo facevano sembrare un teschio. Un orribile teschio che fluttuava nella lugubre e silenziosa penombra.
Mi tremavano le gambe dalla paura e pensai, in quel breve percorso, in che diavolo di casino mi avesse mai invischiato la mia amante.
E allo stesso tempo temetti anche per la sua incolumità.
Sperai ancora che non le avessero fatto del male.
<<Dove mi sta portando questo mostro?>> mi domandai e arrivammo davanti a una porta che era di un ascensore.
Entrammo all’interno e il mio accompagnatore-aguzzino schiacciò il tasto del quinto piano. Ci trovavamo pertanto in un palazzo e notai, dalle numerazioni dei tasti, che era di sedici piani. Mentre l’ascensore saliva, mi misi a fare un sogghigno isterico, guardando le mie mani legate col nastro. Pensai:
“Con un energumeno del genere come guardiano, non mi sarei mai e poi mai azzardato, nemmeno nei miei pensieri più pazzi, di provare a scappare”.

Così arrivammo a destinazione e quando si aprì in automatico la porta, accedemmo direttamente in un ampio locale molto luminoso, di un appartamento. Feci molta fatica a tenere gli occhi aperti, perché si erano abituati alla penombra e la luce sembrava che provenisse dal sole. Pertanto dedussi che si era fatto giorno.
Vidi frontalmente a me, in fondo, un uomo seduto davanti a una scrivania.
Aveva la pelle mulatta e i capelli di colore nero, sicuramente tinti, perché aveva tutte le sembianze di un individuo di mezza età. Egli mi disse in italiano con accento portoghese:
<<Buongiorno signor Garavaglia, venga, venga qui davanti alla scrivania e si accomodi sulla sedia.>>
Pensai subito che se lui conosceva il mio nome non ero stato sequestrato per caso, ma con premeditazione. Infatti, quando partii con Mariana da San Paolo, ero sprovvisto non solo di smartphone, ma anche del passaporto che lasciai nell’appartamento del grattacielo, in cui ero stato ospitato.
Andai quindi verso il posto indicatomi e mi sedetti, senza essere accompagnato dal bruto, che rimase appoggiato con la schiena al muro, di fianco all’ascensore.
Così rimasi lì, seduto e me la stavo facendo letteralmente addosso dalla paura, mentre attesi che parlasse la persona misteriosa davanti a me.

“È forse un’organizzazione criminale che mi ha rapito per ottenere un riscatto? Ma io non sono ricco! Quindi può essere che colui che ho davanti a me, sia il famoso Marcelo, papà di Mariana? Magari non gradisce il comportamento troppo libertino della figlia e vuole punire sia lei che me. Ma tutto questo non è normale, legale!
Pertanto il papà ricco potrebbe essere comunque un malavitoso?”

Mentre ero seduto e facevo queste considerazioni, il mulatto dai capelli tinti si accese un sigaro cubano e buttò fuori dalla sua bocca del fumo, nella mia direzione, con disprezzo. Notai che aveva una cicatrice che partiva appena sotto la narice e scendeva quasi fino al mento. Lo sfregio mi confermava che egli, quasi sicuramente, potesse essere benissimo un delinquente.
Pensai al classico enunciato: “L’abito non fa il monaco”. Ma mi convinsi, purtroppo, che non poteva essere uno scherzo e di fatto, dovetti accettare la brutale e definitiva realtà: ero stato ignobilmente sequestrato.
In quel momento ebbi l’occasione di notare che la stanza era molto luminosa, perché c’era una grossa finestra all’angolo, alla sinistra del presumibile papà della mia amante. Mentre alla sua destra c’era una porta in legno. A parte la scrivania, c’era un divano a quattro posti sul lato della porta, mentre sul lato della finestrona c’era un mobile a sei ante e dei ripiani tutti occupati da file di libri che erano così ben allineati, da sembrare finti.
Egli mi osservò ancora per altri secondi, che furono per me interminabili, finché non fece un gesto con la mano, che teneva il sigaro, indicando all’orco, che stava dietro di me, di avvicinarsi.
In quel momento sentii un brivido lungo la schiena perché vidi, con la coda dell’occhio, il “gigante” che teneva in mano un grosso pugnale. Ma quando egli pose la lama sul nastro attorno ai miei polsi e lo tagliò, feci un sospiro di sollievo, che non passò inosservato al suo capo che mi rivolse un sorriso sprezzante.
<<Allora piccolo uomo, lo sai che sei proprio fortunato?>> Finalmente, la persona di cui dedussi che non poteva essere ovviamente perbene, ma un criminale fatto e finito, parlò di nuovo.
“Fortunato? Fortunato perché sono ancora vivo?” pensai.
Infatti disse:
<<Sei un uomo fortunato perché sei ancora vivo! E devi tutto questo alla mia Mariana! >> e fece un fischio come per chiamare un cane. Dopo pochi secondi si aprì la porta in legno ed entrò la mia amante brasiliana.

<<Eccola qua la mia Mariana, la mia donna! >> disse il mulatto con i capelli tinti, in italiano con accento portoghese. Essa aveva uno sguardo insolitamente inespressivo. Stava in piedi di fianco al divano e guardava davanti a sé un punto fisso. Era come se fosse sedata. Molto probabilmente non si era nemmeno accorta della mia presenza, perché era evidente che non era in sé stessa. Portava un pareo a fiori colorati su fondo blu, avvolto sul seno che scendeva a una spanna sopra le ginocchia.
Ero talmente preso a osservarla e contento nel vederla, apparentemente in buone condizioni, che non feci subito neanche caso alle parole che pronunciò il mio sequestratore. Senza rendermi conto le ripetei, in parte, a bassa voce e poi, però, capii perfettamente quello che disse:
<<… la mia donna? >>
Egli, sentendomi, si mise a ridere all’impazzata e dichiarò con disprezzo:
<< Certo, è la mia donna! Diciamo la mia puttana personale, una delle tante, lei è la migliore fino a quando però non ha deciso di fare di testa sua e così per un po’ di tempo, la terrò reclusa per punizione. Cosa ti ha raccontato? Sicuramente che io sono suo padre, vero?>>
Alle sue parole rimasi inebetito e lui continuò:
<<Le uniche cose vere che ti ha raccontato, sono che io sono ricco e mi chiamo Marcelo Oliveira. Non sono proprietario di un casinò, come sicuramente ti avrà detto. Sono proprietario di parecchie cose ma non di un casinò.>>
Mentre io ero sempre frastornato, ricordai quando Mariana parlava animatamente al suo cellulare in disparte e così i miei dubbi sul suo conto furono inequivocabilmente chiariti. Lei stava sempre lì, in piedi, come in trance; molto probabilmente l’avevano drogata, contro la sua volontà. E intanto il malavitoso Marcelo si alzò e si sedette sul divano vicino a lei. Fece un paio di tiri col sigaro e chiamò il suo servo “gigante” per nome:
<<Vieni qui João.>>.
E così appresi che il mostro aveva un nome, stranamente un nome non di animale ma di persona normale. Oliveira affidò il sigaro nelle mani di João, si alzò e strappò il pareo che indossava Mariana come se fosse di carta igienica. Lei era completamente nuda, non portava sotto il bikini. Poi Marcelo le baciò, da dietro, il collo e le palpeggiò i seni con entrambi le mani. Nel frattempo, disgustato, abbassai lo sguardo ma il malavitoso mi costrinse a osservare dicendomi con disprezzo:
<<Piccolo uomo italiano, ti conviene guardare e anche attentamente.>>
E così fui costretto ad assistere allo spettacolino deplorevole, perché il bastardo teneva in mano il pugnale di João e appoggiò la lama sul collo di Mariana. La mia amante era sempre impassibile, come se quello che stava succedendo non la riguardasse. Marcelo diede indietro l’arma tagliente a João e continuò a baciare il collo della sua schiava. Sì, più che la sua puttana io la definii la sua schiava. Con la mano sinistra palpeggiava sempre i seni, mentre con la destra le accarezzava il pube.

Finalmente, dopo parecchi secondi che mi parvero interminabili, si sedette e fece accomodare Mariana sulla sua gamba. Poi si fece ridare il sigaro da João, fece un paio di tiri e mi disse con arroganza:
<<Come vedi lei è mia, è il mio giocattolino personale. Però mi ha fatto notevolmente incazzare in questi ultimi tempi. Le ho lasciato del tempo libero e lei si è allargata un po’ troppo, si è voluta divertire con te, senza chiedermi il permesso. Vero bambina?>> Domandò a lei volgendole lo sguardo e baciandola sulla bocca forzatamente. Marcelo aveva le labbra piuttosto carnose che, poste su quelle altrettanto polpose di Mariana, fecero uno schiocco disgustevole.
Il malavitoso mi rivolse un sorriso beffardo e mi disse:

<< Ora andiamo alla finestra perché devo parlarti di affari.>>

“Affari?” chiesi a me stesso.
“Che caspita di affari avrà da propormi questo bastardo…”
E vidi che si alzò insieme alla sua schiava e l’affidò al suo servo.
Il “gigante” la sollevò senza difficoltà alcuna, come se fosse un bambolotto. Poi la mise sulla sua spalla a pancia in giù e se ne andò nell’altra stanza, mostrandomi il sederotto nudo della povera donna.

Sperai, ancora, fino all’ultimo, che fosse uno scherzo di cattivo gusto della mia amante. Ma non lo era, anche perché lei e i cattivi sarebbero stati veramente dei grandi attori da premio “Oscar”.
Purtroppo, quello che stavo vivendo, era una storia drammaticamente e orribilmente reale. E pensai che se fossi rimasto in vita, avrei scritto un romanzo.

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Un commento

  1. silvia ha detto:

    Era più che prevedibile.

    Piace a 1 persona

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