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Longobucco si svegliò con la sensazione di essere più stanco di quando si era addormentato. Ormai la vecchiaia cominciava a impadronirsi di quasi tutte le sue cellule. Gli rimaneva ancora molto entusiasmo della gioventù. Quella passione che lo aveva spinto a intraprendere la professione di investigatore scientifico, ma si rese conto che se la mente poteva andare oltre l’ostacolo, il corpo purtroppo no! Non aveva l’abitudine di assumere dei sonniferi prima di addormentarsi, nonostante la sua Martina, da buona anestesista – professione nell’Ospedale di Reggio Emilia – insisteva che gli avrebbero fatto bene o perlomeno non avrebbe continuato a fare brutti sogni notturni, incubi causati dal suo lavoro che lo portava a essere forzatamente spettatore di efferati omicidi. Ebbe pertanto nella notte, come di sovente da anni, un sonno agitato, popolato d’angoscia. Ma quello che più preoccupò l’ex Capo RIS di Parma quel mattino, fu la certezza che le immagini create nel suo subconscio in quella frammentata attività onirica, non fossero completamente ed esclusivamente sue. Per questo motivo gli venne un brivido lungo la schiena, perché temette che potesse essere un brutto segnale che lo avrebbe portato alla pazzia.
“Non sono nemmeno più padrone dei miei sogni”
Guardò l’orologio digitale appoggiato sul piano di marmo grigio del tavolino da notte. Le cifre rosse indicavano che erano le sei e tre minuti. Doveva alzarsi per recarsi alla Caserma dei Carabinieri di Magenta. Le forze dell’ordine avevano bisogno di lui, nella città dove era avvenuto il brutale omicidio di un giovane e l’assassino aveva lasciato evidenti segnali che lo riguardavano in prima persona. Ma perché proprio lui? Aveva ormai lasciato da tempo il Comando dei RIS di Parma, ma evidentemente il suo destino doveva essere ancora contaminato dal male e suo malgrado doveva ancora viverlo in prima persona, a tu per tu col demonio. Scostò il lenzuolo tutto stropicciato, si alzò dal letto e andò in bagno. Lo attendeva una giornata alquanto faticosa e non aveva più la freschezza giovanile di un tempo.
A centinaia di chilometri di distanza, anche un uomo si svegliò per un brutto incubo, ma rimase ancora a letto, nel buio, a meditare. Era ancora presto per alzarsi. Era comunque scivolato, nella notte, in un sonno soddisfatto con la sensazione liquida e appagante che provava una barca in secca quando ritrovava il mare. Il suo respiro calmo, tranquillo, appena accennato, sollevò a malapena il lenzuolo che lo ricopriva a indicare che era vivo, che il tessuto su di lui era una coperta e non un sudario. Di fianco a lui, su un comodino, c’era una maschera immobile, inerme, che doveva prendere vita solo sul suo viso. Era la maschera di Lord Farquaad.
L’uomo, steso sul letto, pensò alla scena dell’omicio da lui commesso in una notte precedente indossando la maschera di “Shrek”, come se stesse assistendo alle riprese macabre di una scena reale vissuta da un’altra persona. E si addormentò di nuovo facendo un altro incubo:
“Immagini indecifrabili che lo agitavano, anche se le figure che la sua mente cercava di dipanare non arrivavano a scuotere la perfetta immobilità del corpo. Dapprima era buio. Poi ci fu una strada sterrata e sul fondo si intravedeva una costruzione, sotto la luce morbida della luna piena. Era una calda sera d’estate. L’uomo si avvicinò passo dopo passo alla sagoma di una grande casa confusa nella penombra, dalla quale arrivava, come un richiamo, il profumo familiare della lavanda. L’uomo sentì i piccoli morsi della ghiaia sotto i piedi nudi. Provò il desiderio di avanzare ma nello stesso tempo ebbe paura. L’uomo avvertì il suono soffocato di un respiro, più respiri affannosi e il morso brusco dell’angoscia che si calmò ed evaporò non appena si accorse che il respiro era il suo. Ma poi tornò di nuovo in lui l’angoscia perché si accorse anche del respiro ansimante di un’altra persona, di una donna in pericolo che urlava chiedendo aiuto e lui era inerme, non poteva aiutarla…”
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