I like to kill – The return of the Aphorist
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Due ragazze camminavano a braccetto in via del Popolo in Vigevano. Era una tarda sera di aprile e c’era nell’aria un buon profumo di fresca primavera. Le ombre di Barbara ed Elisabetta avanzavano lentamente in salita sulla pavimentazione in porfido. Ombre flessuose di giovani donne che chiacchieravano allegramente e spensieratamente. Altre ombre incrociarono le loro ombre. Erano singole ombre di uomini e donne oppure ombre in coppia come le ragazze. Ombre che a loro volta incrociavano altre ombre, fra le quali c’era quella di un uomo che portava in testa un cappello sportivo con una lunga visiera curva. L’uomo era l’Aforista e stava pedinando le due ragazze amiche che entrarono nel bar Caffè Roma. La ragazza preda dell’assassino era Barbara, Barbara Trevisan. Era la ragazza tanto somigliante a Marcella, la prima vittima dell’Aforista bambino, l’iniziazione del suo piacere di uccidere. La preda e l’amica si sedettero al primo tavolo vicino all’ingresso del bar. Dopo qualche secondo entrò anche il predatore che si accomodò sullo sgabello in legno di fronte al banco. Ordinò un drink, alzò leggermente la visiera del cappello per poter adocchiare meglio le ragazze. Non era mai entrato in quel locale e notò che i tavoli erano dei pallet in legno appoggiati su delle botti di vino vuote. Bevve il suo drink, mentre in sottofondo si sentivano le note di una canzone degli anni ottanta di Diana Ross:
Upside down
Boy, you turn me
Inside out
And round and round…
E intanto l’Aforista sentì un brivido corrergli lungo la schiena perché quella canzone trasmessa alla radio sembrò un segno del destino: i ricordi della sua infanzia di iniziazione omicida, rievocati in quella sublime occasione per incoraggiarlo ancora di più a uccidere. Sì, a uccidere senza pietà. L’Aforista aveva pianificato alla perfezione il tutto. Aveva già nascosto, in un angolino sicuro dello scantinato dell’abitazione della vittima predestinata, lo zainetto con il martello tira chiodi, il punteruolo e la siringa. La siringa, anziché un liquido, conteneva il foglietto con la frase che ormai aveva dato il nome al serial killer, ovvero quella di un aforisma. Era una citazione di Fernando Pessoa:
“La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto”.
La canzone di Diana Ross terminò e vennero trasmesse alla radio altre canzoni che non suscitarono alcuna ulteriore emozione all’assassino. Ordinò un altro drink e osservò le due giovani donne che chiacchieravano ancora, senza sosta mentre un pensiero macabro-ironico gli attraversava la mente:
“Per farle smettere di parlare ci vorrebbe un interruttore, ma io sarò fra poco l’interruttore che farà tacere per sempre la sosia di Marcella.”
Il predatore guardò l’ora: mancavano poco più di venti minuti alla chiusura del locale. Cosicché decise di uscire e di recarsi nelle vicinanze della palazzina dell’abitazione di Barbara Trevisan. L’Aforista attese con pazienza l’arrivo della sua preda. Più i minuti passavano e maggiore era la sua eccitazione. Barbara Trevisan era una giovane madre che viveva in casa con il suo nuovo compagno di dieci anni più vecchio di lei. Era il classico uomo che aveva avuto la possibilità di mettersi con una bella e giovane donna, solo perché accettava una figlia non sua e aveva discrete disponibilità economiche per mantenere la famiglia promiscua. Insomma un uomo che, se non ci fossero state queste condizioni, non sarebbe stato cagato nemmeno di striscio da Barbara Trevisan. L’assassino vide arrivare da lontano la donna a piedi. Andò immediatamente nella sala contatori della palazzina e staccò i contatori elettrici dell’ascensore e del vano scala comune. Intanto la preda era entrata nella palazzina e aveva premuto l’interruttore delle luci constatando che non si accendevano. Arrivò di fronte all’ascensore sbuffando e vide che era fuori uso.
<<Ma no, cazzo! Che palle, mi tocca andare fino al terzo piano a piedi e oltretutto al buio!>> disse a bassa voce.
Ma le venne in mente che poteva usare la torcia dello smartphone. La luce emessa dal suo apparecchio illuminava i suoi piedi che calzavano dei sandali gialli e li accompagnava su ogni gradino, lentamente, per non inciampare, finché a un tratto la torcia smise di funzionare.
<<Ma porca puttana! Perché ora hai smesso di funzionare?>> chiese, sempre a bassa voce, allo smartphone, come se avesse un’anima e una bocca per parlare.
A fatica, riuscì ad attivare la torcia di nuovo e arrivò al primo piano sbuffando. Fece altri gradini, ma non appena giunse all’inizio del pianerottolo cieco tra il secondo e il terzo piano, sentì un leggero rumore proprio di fronte a lei. Essa fece giusto in tempo a illuminare il viso torvo dell’assassino e senza neanche appurare chi fosse, venne colpita con violenza sulla fronte dal freddo ferro del martello tira chiodi.
La donna non si rese neanche conto di aver perso i sensi e di essere caduta sul pavimento. E giusto il tempo di essere trafitta al cuore col punteruolo, sentì un dolore brevissimo ma atroce prima di morire.
Cosicché la siringa infilata nel suo occhio sinistro fu giusto un coronamento simbolico dell’Aforista su un corpo ormai deceduto.
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