I like to kill – Epilogue
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Passarono parecchi giorni dalla fuga dell’Aforista. In una villa di periferia, immersa nella campagna, c’erano due persone alte e corpulenti, vestite con jeans e giubbotto militare, a guardia dell’ingresso. All’interno dell’abitazione, in una camera senza finestre, ma ben illuminata e con pareti bianche, si svegliò di soprassalto Mario Casari. Era sempre sdraiato su un letto e si toccò il viso constatando che era ancora bendato, ma capì subito che non si trovava più in ospedale e si chiese:
<<Dove cavolo mi trovo?>>
Così si alzò e appurò, anche, che non era più ingessato ed era completamente nudo. Andò alla porta, l’aprì e sentì una voce conosciuta che gli parlò dal locale comunicante:
😈<<Ciao Mario, ben svegliato. Vieni qui da madre Lucifero.>>😈
L’uomo avanzò e vide in fondo al locale Alice Leoni vestita con una tuta felpata di colore rosso sangue, seduta su una poltrona in pelle, con braccioli in legno.
<<Vieni, vieni qui davanti a me, bambino mio, per me sei sempre il mio bambino assassino.>>
Non appena l’uomo si trovò a pochi centimetri da lei, nudo come un verme e il viso fasciato, arrivò nella stanza anche il figlio della donna, pure lui alto e corpulento.
<<Non saluti mio figlio Alberto? È grazie a lui, se ora tu sei qui con me. Si è sempre dato da fare per te, con i suoi due amici ex militari. A ogni tuo omicidio, senza di loro ti avrebbero già incastrato. Ha pedinato le tue vittime e poi ha sempre fatto piazza pulita attorno ogni volta che tu le assassinavi con cupidigia. I famosi e bravissimi Ris non sono mai riusciti a trovare tracce suoi luoghi dove tu hai commesso i primi tre omicidi. È stato anche un divertimento per noi fare il doppio gioco con il maggiore Longobucco e il comandante Pastori: quando gli abbiamo fatto credere che pedinavamo il tuo amico prete Casnaghi e invece stavamo alle calcagna del preside Martini preparandoti così il piano perfetto per ucciderlo. Oppure quando abbiamo concentrato i sospetti sull’altro tuo amico Lovetti. E poi mi viene da ridere pensando a Longobucco quando ha fatto piazzare le cimici nel bar di De Santis. Comunque il tuo amico barista è almeno l’unico che si è divertito in tutta questa storia, non credi Mario?>>
Intanto, il figlio della donna, occhi verdi spiritati, capelli biondi a spazzola e mento sporgente, sogghignava con disprezzo. Egli stava in piedi, appoggiato con la spalla allo stipite della porta, tenendo le sue grosse braccia muscolose conserte. Indossava jeans sbiaditi e una t-shirt verde oliva. Mentre la donna vestita di rosso parlava, Mario Casari tremava come una foglia.
<<Sei sempre stato il mio piccolo Frankenstein, e anche ora sei un piccolo uomo, guarda come tremi, mi fai tenerezza. Avevo subito capito che eri tu l’assassino, l’avevo letto nei tuoi occhi già dal primo omicidio di Marcella Magistroni. Eri un bambino che aveva talento. Eri un bambino prodigio del male. Il tuo strano metodo di uccidere. L’idea dell’aforisma scritto su un foglietto, con lettere ritagliate dal giornale e poi infilato nella siringa vuota e la stessa nell’occhio sinistro della vittima. Direi un capolavoro. Sì, un vero e proprio capolavoro che passerà negli annali della storia dei più spietati serial killer, che abbia mai visto l’umanità. Io ti ho plasmato nel tempo. Grazie a un mio carissimo medico molto autorevole, mio ex amante, sono riuscita a farti ottenere la semi-invalidità e hai imparato a fare proprio bene lo storpio. Così destavi meno sospetti di essere l’assassino. Avevi piacere di uccidere, esattamente come me, solo che sei sempre stato un sentimentale, dovevi possedere sempre un buon motivo per farlo. E io te l’ho sempre dato, un buon motivo, perché quando uccidesti Marcella Magistroni volevi già costituirti… ah ah ah. Ma io sono sempre riuscita a invogliarti a continuare, a terminare la missione di Satana. E poi sono riuscita a incastrare quel disgraziato di Locatelli e l’ho fatto pure ammazzare in prigione simulando un suicidio. Tutto questo grazie alle mie conoscenze negli ambienti loschi della malavita. Ti ho concesso fin troppi anni di tregua, ma poi sono riuscita finalmente a risvegliare in te il nostro comune grande piacere di uccidere. Per una tua disattenzione, abbiamo dovuto eliminare Sabrina Miccio, non potevamo rischiare di tenerla in vita. Me la ricordo ancora, quando l’abbiamo obbligata a ingerire i farmaci e l’alcool. Lei mi supplicava con lo sguardo. Comunque, a parte qualche tuo piccolo errore, mi sei piaciuto tantissimo. Ad esempio, agli interrogatori, ti sei comportato da vero attore professionista. Quando mi fissavi con i tuoi occhi sicuri, mi avevi quasi messa in imbarazzo, davanti ai miei colleghi. E infine, abbiamo eliminato anche il tenente Gornati che ha voluto giocare con Lucifero. Lui pensava che non mi fossi accorta che si era messo a curiosare sul mio PC portatile. Gli abbiamo fatto fare la fine che si meritava, quella del topo di fogna. Ti abbiamo questa volta reso partecipe alla missione, ma sottovalutando Longobucco che è riuscito a scoprire la tua identità. L’identità del fantomatico Aforista, nonostante non ci fosse la videosorveglianza lungo la valle del Ticino. Devo ancora capire come caspita ha fatto! Ma menomale che siamo riusciti a fregarlo, a rimediare al nostro errore, ora tu sei qui, davanti a me, al mio cospetto. Peccato che sempre per l’intraprendenza del capo RIS, non siamo riusciti a completare, fino in fondo, il nostro progetto esoterico della stella di David. Comunque, hai visto che cerimonia coi fiocchi ti abbiamo fatto nel casolare? Proprio fatta a regola d’arte. Ora tu sei il nuovo adepto di Satana! Ma ti rendi conto Mario? Non è meraviglioso tutto questo? Ora, però, ti devo dire una cosa che ho dovuto fare. >>
Casari, a testa bassa, braccia distese lungo il corpo, era sempre in piedi di fronte alla donna, senza proferire parola.
<<Ho dovuto uccidere tua madre, ho dovuto farlo, ormai era un peso, una zavorra. Sai che non è stato facile per me. L’ho tanto amata, ci ho fatto tanto buon sesso con lei. Ed è grazie a te se l’ho conosciuta. Ma ho dovuto ammazzarla. Così come avevo dovuto uccidere tuo padre perché stava scoprendo il nostro rapporto amoroso. Gli uomini bastardi non possono capire quanto è bello il sesso fra noi donne. Ti ricordi quella notte in cui sono stata nascosta nella tua cameretta fino al mattino? Quell’imbecille di tuo padre era tornato completamente ubriaco dal bar, tanto per cambiare. Come solito andasti tu a prenderlo. Quella notte io e tua madre avevamo passato delle ore fantastiche. Non ne potevo più di dover dividere Giovanna con quello stupido di tuo padre anche se, poi, lei era costretta a farci l’amore quando lui si ricordava sporadicamente di essere un marito. Ed era comunque disgustoso per lei, perché aveva sempre l’alito che puzzava d’alcool. Così quella notte misi del cianuro nella miscela di caffè, dentro la moka del mattino che ogni sera tua madre preparava per lui. Fu poi un gioco da ragazzi fare falsificare dal medico curante il certificato di morte, dichiarando il decesso per infarto fulminante. Il medico era uno dei tanti uomini plagiati dal mio charme di femme fatale, ah ah ah.>>
Casari alzò il capo e scesero delle copiose lacrime dai suoi occhi che vennero subito assorbite dalle bende. Poi, cominciò a dire solo una parola ripetutamente, con la sua voce da bambino:
<<Mamma, mamma, mamma, la mia mamma. >>
Alice Leoni fece cenno con la testa al figlio che si avvicinò a Casari e gli tolse le bende.
<<Che capolavoro che ha fatto il mio amico chirurgo. Ti ha fatto una modifica sostanziale del viso. Ho voluto che tu assomigliassi il più possibile a tua madre Giovanna e devo dire che sembri proprio lei.>>
L’uomo sequestrato si toccò il viso e fece un’espressione incredula, mista stupore e disperazione.
<<Su dai, non devi disperarti, ora ti farò anche evirare per bene dal chirurgo e così diventerai il mio personale giocattolo sessuale: una donna proprio somigliante a tua madre. Mi sembrerà, così, di fare ancora sesso con tua madre. >>
La donna, mentre diceva queste parole, toccava il pene di Casari con l’indice, facendolo penzolare su e giù. L’uomo che fu Aforista, con sguardo triste e capo abbassato, era ormai diventato una vittima assoluta del diavolo. E mentre il figlio della “donna Lucifero” osservava e sogghignava con quel suo sguardo colmo di disprezzo, all’esterno dell’abitazione caddero a terra i due uomini di guardia sotto i colpi precisi e mortali di un’arma da fuoco dotata di silenziatore.
Alice Leoni stava ridendo all’impazzata insieme al figlio Alberto, mentre al sequestrato scesero di nuovo le lacrime copiose dagli occhi finché, improvvisamente, si sentì un urlo straziante. Il figlio della donna Lucifero cadde in terra morente, trafitto alla gola da un punteruolo.
<<Ciao Geppo!>> disse Mario.
Casari sorrise all’amico e si voltò a osservare gli occhi di Alice Leoni increduli. La donna non riuscì più a proferire parola, poiché l’uomo di fronte, con occhi spiritati e sopraffatti da anni e anni di soprusi e abusi, le strinse il collo con le mani, con una presa talmente stretta che quasi uscirono i bulbi oculari dalle sue orbite.
Fu così che l’uomo, grazie all’aiuto del suo amico d’infanzia Geppo, riuscì a liberarsi dal demonio per sempre. Forse un giorno Dio l’avrebbe perdonato?
“I am what I am
I don’t want praise, I don’t want pity
I bang my own drum…”
Mario Casari era seduto su un aereo e stava ascoltando un vecchio successo di Gloria Gaynor da un lettore MP3 che gli avevano regalato i suoi tre cari amici, il giorno in cui aveva festeggiato quarant’anni, al solito bar. Pensando a loro aveva uno sguardo sereno ed era contento che l’apparecchio funzionasse ancora bene.
Il comandante annunciò che il velivolo diretto verso l’Argentina era pronto al decollo.
Arrivò un WhatsApp sullo smartphone di Casari:
– Ti piace il tuo nuovo nome e cognome sul passaporto?
– Sì, Lucia Policante, e sul tuo passaporto invece, cosa hai scelto?
– Michele Barbieri. Buono accussì, Antonio Pennetta non mi è mai piaciuto. Ora sono ben contento di averlo cambiato.
– Però potrò chiamarti sempre Geppo?
– Certo amica mia, ops, scusami, amico mio ah ah.
– Okay, ma non metterti strane idee in testa, anche se sembro una donna, a me piacciono sempre e solo unicamente le donne, anche se con quella folta barba quasi, quasi mi attizzi! Ah ah.
L’uomo che veniva chiamato l’Aforista si girò guardando dietro, dove stava seduto il suo amico e gli sorrise.
“Questo aereo sta per partire. I signori passeggeri sono pregati di spegnere o mettere in offline i loro cellulari, smartphone e tablet.”
Disse la voce metallica ma suadente della hostess.
Mario Casari fece il segno dell’okay col pollice all’amico, mise in modalità aereo il suo apparecchio e continuò serenamente ad ascoltarsi la canzone sul suo lettore MP3…
” I am what I am
And what I am needs no excuses
I deal my own deck
Sometimes the aces sometimes the deuces..”
A Gambolò, nella chiesa SS. Gaudenzio, era appena terminata la messa del mattino e Don Claudio, non appena si tolse l’abito liturgico, sgusciò immediatamente nel suo studio dell’oratorio, perché aveva parecchia posta da vedere. Si sedette e gli andò subito l’occhio su una busta che non riportava il nome del mittente. L’aprì e c’era una lunga lettera scritta a mano in bella grafia. Era un memoriale del suo amico d’infanzia Mario Casari. Nella lettera era spiegata la sua versione dei fatti e nella parte conclusiva:
“Non ti chiedo di perdonarmi caro Claudio, solo Dio forse un giorno lo farà. Ti prometto, comunque, che d’ora in poi mi dedicherò anima e corpo ai più bisognosi. Salutami caldamente Massimo e Salvatore e scusatemi di nuovo per i grossi fastidi che vi ho arrecato. Un abbraccio, il tuo amico per sempre Mario.”
Casnaghi piegò la lettera e la pose sulla scrivania. Aprì il cassetto e prese in mano una fotografia che ritraeva lui insieme ai tre amici. Erano seduti su una scala esterna di un oratorio di Garbagnate Milanese, dove egli aveva svolto il suo primo ministero. Osservò Mario, sé stesso, Salvatore e Massimo e gli venne in mente di quando, da bambini, si sedevano spensierati e innocenti sulla scala del loro cortile condominiale, nelle sere d’estate. Pose anche la fotografia sulla scrivania e guardò verso la finestra facendo un sorriso, talmente radioso che se lo avesse visto il sole avrebbe forse provato invidia.
“Abito proprio vicino al condominio di Maurizio Locatelli, l’Aforista. Sono convinto che fosse proprio lui l’assassino…Non avevo stretto amicizia con nessuno, in quelle occasioni…”
Le parole pronunciate dal maresciallo Antonio Pennetta, in quel mattino nel Bar all’aperto di Piazza Ducale a Vigevano, rimbombavano ormai da giorni nella testa del maggiore Longobucco. Gli vennero in mente quando lesse la missiva a lui indirizzata, senza mittente, recapitata nella Caserma dei Carabinieri. Fu scritta dal killer con lo stesso metodo usato per i foglietti macabri che egli introduceva nella siringa: con le lettere ritagliate dal giornale. Poche righe che dichiararono le carognate e gli atti criminali commessi dalla detective Alice Leoni e i suoi complici. Il capo Ris si immaginò la faccia soddisfatta di Mario Casari mentre componeva il suo ultimo capolavoro, dall’alto della sua superiorità, indicandogli il luogo dove avrebbero trovato i cadaveri della Leoni, del figlio Alberto e dei due suoi complici ex militari americani. Li aveva uccisi lui stesso con l’aiuto dell’insospettabile complice e amico Antonio Pennetta.
Il maresciallo aveva preso dei giorni di permesso per gravi motivi familiari: stava per morire la madre. In realtà aveva bisogno di tutto il tempo necessario per liberare il killer ed eliminare i suoi complici. Persone che lo avevano fatto evadere dall’ospedale ma che poi lo avevano sequestrato per degli scopi abominevoli di una pazza che era riuscita a plagiarlo fin da bambino, facendogli credere che lei fosse Lucifero. La donna voleva anche trasformare fisicamente Casari in una sorta di mostro per soddisfare i suoi desideri abietti.
Quindi l’Aforista e il maresciallo l’avevano fatta franca. Molto probabilmente erano scappati all’estero. Longobucco si sentì almeno confortato, in cuor suo, che dei criminali erano stati eliminati: si scoprì che la Leoni, il figlio e gli ex militari, oltre a essere dei pericolosissimi assassini erano anche dediti al satanismo.
“Speriamo che i latitanti Casari e Pennetta vengano scovati e arrestati al più presto e se questo non avverrà che almeno non commettano più omicidi,” pensò egli desolato.
Il capo Ris aveva fortunatamente una famiglia e così decise di prendersi parecchi giorni di riposo da trascorrere a casa, la dolce casa, con la sua Martina e il suo figlio Luca. Era ormai imminente il ritorno alle attività lavorative della sua compagna ed egli avrebbe fatto volentieri il “mammo”.
Mancavano ormai pochi chilometri per arrivare a Parma. Pensò che avrebbe dato retta alla sua compagna e che si sarebbe affidato alle cure di un buon psicoterapeuta. Gli ultimi casi criminosi lo avevano parecchio segnato psicologicamente. Pensò anche che avrebbe chiesto ai suoi superiori di poter rassegnare le dimissioni da capo RIS e dedicarsi magari all’addestramento delle persone che volessero intraprendere la professione dell’investigatore scientifico. Il maggiore arrivò all’uscio di casa ed entrò. Si chinò per abbracciare il suo bimbo che gli corse incontro, mentre la compagna Martina, dal fondo del corridoio, sorrideva dolcemente osservandoli. Longobucco si sentì pervadere da tanta buona emozione e non appena sentì il piccolo Luca pronunciare la parola papà, scoppiò a piangere di tanta felicità.
“I padri devono sempre dare, per essere felici. Dare sempre, l’esser padre sta in questo.”
(Honoré de Balzac)
In una cascina, in fondo alla valle del Ticino di Abbiategrasso, c’era Luchino che dormiva felice su un letto tutto arruffato. Era notte fonda e le stelle brillavano di divina misericordia. Era estasiato per aver compiuto la missione affidatagli da Maria Immacolata. Aveva impressa nella mente la visione che aveva avuto, anni addietro, in un rigoglioso campo fiorito, frequentato da una moltitudine di farfalle variopinte:
<<Ciao Luchino, ti donerò una grande dote della memoria. Un giorno incontrerai, di notte, un forestiero vestito elegante che ti farà un regalo e tu lo contraccambierai mettendo a frutto questa virtù per una buona azione. >>
Luchino dormiva con un sorriso di immensa beatitudine e sul comodino, di fianco al letto, stavano l’accendino zip con coccardina dell’Arma dei Carabinieri e la statuina della Madonna, bella e magnifica come lui l’aveva vista nell’apparizione.
Intanto, lontano da Abbiategrasso, in un luogo indefinito nello spazio e nel tempo si sentì nell’oscurità una voce di bambino:
<<Geppo? Ci sei? >>
The end –
👁️ “LA STORIA DELL’ASSASSINO CHIAMATO L’AFORISTA” – I LIKE TO KILL di Carlo Bianchi Orbis
“Chi confida in Maria non si sentirà mai defraudato.”
(San Giovanni Bosco)
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